Carlo Porta è nato a Milano il 15 giugno 1775 e morto a Milano il 5 gennaio 1821. E' considerato il maggior poeta in milanese. Carlo Porta appartiene alla
borghesia illuminata milanese che aveva condiviso gli ideali rivoluzionari della
Rivoluzione Francese, illudendosi che la venuta in Italia di Napoleone significasse la
realizzazione concreta di tali ideali democratici. In realtà, Porta si è reso conto che i Francesi miravano soltanto a
realizzare gli interessi del loro Paese ed ha preso le distanze da Napoleone, pur senza mai rinnegare i
valori di uguaglianza e libertà in cui credeva profondamente. Quando è sbocciata in Italia la
polemica classico-romantica, Porta ha aderito istintivamente al
Romanticismo di indirizzo realistico, che gli consentiva di mettere in primo piano
la condizione e i bisogni della plebe milanese, verso la quale si indirizza la sua simpatia di letterato e di uomo. Porta non ha trascurato neppure la
rappresentazione dei ceti privilegiati, ma nobili e prelati vengono nelle sue opere rappresentati per lo più in una
luce negativa, in quanto prigionieri dei loro privilegi, della loro arroganza, del loro egoismo. I
ceti subalterni invece sono l’oggetto privilegiato della poesia di Porta: si tratta di
figure rappresentate nella loro quotidianità, alle prese con drammatici problemi esistenziali, persone che si esprimono in
dialetto milanese. Ecco la grande
novità della poesia di Porta: dare
dignità letteraria al dialetto, veicolo comunicativo che fino ad allora era stato oggetto dei pregiudizi dei classicisti e che, per tale motivo, era stato utilizzato soltanto per un tipo di
letteratura di intrattenimento. La poesia di Porta può essere distinta in tre momenti, caratterizzati da diversi toni di scrittura. Nel
primo periodo, il gusto per il
comico prevale sulla satira sociale: ci troviamo davanti a donne bigotte che si consumano nelle preghiere o a figure di religiosi poveri in canna che vivono di espedienti. Molto simpatica, ad esempio, è la figura del frate protagonista del componimento “
El viagg ed fraà condutt”, che parte felice con la sua mula da Milano per andare a celebrare un
matrimonio fuori città dal quale spera di poter ricavare una lauta offerta, ma, amando alzare il gomito, si ferma in una osteria a bere e i suoi compagni di bevuta gli girano la mula verso Milano. Il poveretto, così, monta in groppa e si trova a Milano a Porta Venezia. In questo periodo
Porta traduce in dialetto anche l’episodio di Paolo e Francesca, tratto dall’
Inferno di
Dante. Nel
secondo periodo della poesia portiana, sul riso prevale la satira sociale, rivolta contro quella nobiltà e quell’alto clero che sono rimasti chiusi nell’egoismo dei loro privilegi e non sanno prestare orecchio ai
lamenti di tanti infelici umiliati e offesi dalla vita. Nascono, da questo sentimento di ribellione morale, componimenti come “
La preghiera”, “
La nomina del cappellano” e il “
Miserere”. E' nella
terza fase che la poesia di Porta raggiunge il suo apice e
la satira lascia il posto a una decisa polemica sociale, che nasce spontanea dai suoi versi. Diventano protagonisti delle poesie povere
creature calpestate dalla vita. I tre componimenti più alti sono “
Il lamento di Melchiorre lo sciancato”, “
Le disgrazie di Giovannino Bongeri” e “
La Ninetta del Verzee”. In questi tre componimenti
l’io narrante coincide col protagonista, eliminando la mediazione dello scrittore colto. Le sventure dei personaggi rivivono emotivamente nel momento del racconto e acquistano una
grande forza agli occhi del lettore. Il linguaggio di Melchiorre o di Ninetta è intriso di espressioni plebee, cosa che ha fatto gridare allo scandalo i benpensanti dell’epoca. Porta, tuttavia, collegandosi ad un’antica tradizione di giustificazione della propria opera, ha scritto, in una lettera indirizzata al figlio Marco e premessa alle sue “
Poesie”, che egli non si dovrà vergognare del proprio padre, che ha sempre servito lo Stato né mai ha tradito il dovere dell’onestà. Porta vuole dirci, indirettamente, che
non è colpa dello specchio se la realtà riflessa è brutta. Egli, insomma, rappresenta i ceti subalterni nella loro verità, senza abbellimenti poetici e letterari.