
Gertrude, la Monaca di Monza
Gertrude, ovvero la Monaca di Monza, è il personaggio protagonista dei capitoli IX e X dei Promessi Sposi. Essa rappresenta un’immagine opposta del mondo degli ordini religiosi rispetto a quella offerta da Padre Cristoforo, perché da ospite e aiutante di Lucia si trasforma in aiutante dei suoi rapitori: appartenente alla più alta nobiltà, essa vive, fin dalla sua monacazione forzata, tutte le contraddizioni e i malefici effetti dell’intreccio tra sistema ecclesiastico e prepotenza sociale. È uno dei personaggi storici dell’opera: si tratta, in realtà, di Marianna de Leyva, di nobili natali, diventata nel 1591 suor Virginia Maria nel convento di Monza. Il narratore, rifacendosi alla vita della donna, si sofferma sulla ricostruzione della relazione di Gertrude ed Egidio, sulla sua seduzione agli intrighi di monastero, sull’uccisione della conversa e persino sul pentimento della signora e delle sue complici e sull’uccisione efferata di Egidio, colpito dalla giustizia pubblica. Quando Lucia, all’inizio del IX capitolo, giunge al convento di Monza per cercare ospitalità e ricovero, l’apparizione dietro la grata del parlatoio della “signora”, colei che non è badessa ma ha gran potere per i suoi nobili natali, suscita nel lettore una sospensione di curiosità e attesa. L’accurato ritratto fisico della donna, sottolinea i segni esterni di un segreto tormentoso, che presto appariranno come le tracce di una doppia vita. Sugli elementi puramente descrittivi prevalgono le interpretazioni psicologico-morali: “bellezza sbattuta, sfiorita e direi, quasi scomposta; contrazione dolorosa” della fronte; “investigazione superba, odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e feroce, svogliatezza orgogliosa” e “travaglio d’un pensiero nascosto” negli occhi; “abbandono del portamento; mosse repentine, irregolari e troppo risolute; qualcosa di studiato e di negletto” nell’abbigliamento. La vicenda di Gertrude si distingue in due tempi: quello in cui essa è, sin dalla culla, vittima predestinata di un padre luciferino, padrone, egoista e crudele, che predestina la figlia alla monacazione; ed un secondo momento in cui ella stessa diventa strumento del male “responsabile del capriccio, del disordine e del peccato”. Evidente è la sproporzione delle due parti: il narratore si dedica soprattutto alla prima, riducendo la seconda ad una breve sequenza. Nel racconto dell’infanzia e della giovinezza, il rapporto con il padre mette a nudo la fragilità del carattere della fanciulla, contrapposta alla crudeltà del nobiluomo: l’imprigionamento morale di Gertrude avviene sin dalla nascita, attraverso i giochi, i discorsi familiari, i ricatti affettivi. Una sistematica, ingannevole deformazione investe gli eventi: a una figlia bisognosa del perdono, per aver intrattenuto una corrispondenza con un paggio, il padre è capace di dimostrare che ogni possibilità di matrimonio è per lei ormai tramontata dopo una simile colpa. Quando Gertrude lascia sfuggire un assenso a una sua considerazione sui pericoli di cui il mondo è pieno, egli mostra di intendere quell’assenso come un’accettazione implicita del velo e la travolge con una serie intramontabile di gesti e di discorsi, tutti volti ad esprimere un conforto e una felicità ormai certa che l’intera famiglia è pronta a condividere. Negli unici momenti in cui la ragazza potrebbe sottrarsi alla morsa che la stringe, la sua debolezza di volontà le impedisce di affrontare la situazione: nel momento in cui chiede pubblicamente di essere accolta nella comunità monastica viene guidata a distanza da occhi paterni. Nel colloquio con l’esaminatore che dovrebbe vagliare attentamente l’autenticità della sua vocazione, l’evidenza terribile di quanto dovrebbe confessare la scoraggia e la spinge a rifugiarsi nella finzione delle parole: “e fu monaca per sempre”. Dal rancore e dalla frustrazione della vittima nasce la malvagità della suora. Gertrude, così, diventa preda di un umore astioso e variabile, che si sfoga con le altre monache o con le allieve a lei affidate, fin quando la tresca con Egidio non le ripropone la sottomissione alla volontà perversa di un uomo. La digressione rende chiaro il senso delle domande morbose che ella rivolge a Lucia sul nobile di cui essa ha rifiutato le offerte, ma fa intuire al lettore che Lucia anziché trovarsi sotto la protezione della monaca, sicura come sull’altare, è caduta in trappola. A Lucia, dei suoi discorsi rimane in cuore un confuso spavento, mentre Agnese si limita ad un giudizio generale, ma non benevolo.
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(Foto tratta da alessandromanzoni.org)