Dino Campana: la vita, le poesie, la malattia e il rapporto con Sibilla Aleramo

Vita, poetica e altre opere di Dino Campana, poeta dall'indole inquieta a causa della schizofrenia di cui soffriva, noto anche per la turbolenta relazione con Sibilla Aleramo.
Dino Campana: la vita, le poesie, la malattia e il rapporto con Sibilla Aleramo
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1Chi è stato Dino Campana?

Immagina un poeta maledetto alla Charles Baudelaire:

  • maledetto, osteggiato, tormentato da tutti;
  • che cerca disperatamente amore e comprensione e non trova niente;
  • che non sa e non può vivere con serenità la vita perché sente troppo forte la vita e il suo dolore;
  • e tutto lo colpisce; tutto lo agita.
La foto mostra un'escursione sull'Appennino Tosco-Romagnolo, 3 gennaio 1912. Campana è il sesto uomo da sinistra
La foto mostra un'escursione sull'Appennino Tosco-Romagnolo, 3 gennaio 1912. Campana è il sesto uomo da sinistra — Fonte: ansa

Ma è un poeta che vuole successo, vuole far sentire la sua tremenda voce a tutti: allora che fa? Pubblica a sue spese le poesie (e come tanti fanno ancora oggi) va a venderle nei caffè. Patetico, non trovi? 

Ma anche eroico. Immagina una persona così, impetuosa e fragile, sognatrice e fin troppo cruda nel realismo

Queste poche righe possono fornirci una prima idea di questo straordinario poeta a lungo poco considerato tra i contemporanei e nei primi decenni successivi

In Italia i poeti devono essere italiani tout court. Dino Campana è un poeta straordinariamente europeo che unisce il simbolismo dei francesi alle suggestioni egotistiche di Walt Whitman, il poeta di “Oh capitano, mio capitano!”. 

Dunque, andiamo a conoscere questa voce incredibile della nostra letteratura. Sono sicuro che ti piacerà. 

2La vita e la malattia di Dino Campana

Ospedale psichiatrico di Imola: qui fu ricoverato per la prima volta Dino Campana. Illustrazione Italiana, n. 29, 22 luglio 1877
Ospedale psichiatrico di Imola: qui fu ricoverato per la prima volta Dino Campana. Illustrazione Italiana, n. 29, 22 luglio 1877 — Fonte: getty-images

Dino Campana fu originario di Marradi, paese della provincia fiorentina, dove nacque nel 1885. Era figlio di un maestro di scuola elementare e sin da subito si rivelò essere un ragazzino scontroso, inquieto, dotato di una sensibilità fuori dal comune.

Dovette influire anche il difficile rapporto con la madre, che gli preferiva il fratello Manlio, di lui più giovane.

Dopo gli studi liceali a Faenza si iscrisse alla facoltà di Chimica di Bologna e poi a Firenze.

Nel 1906 fu internato per la prima volta nel manicomio di Imola: sarà, purtroppo, solo la prima di tante volte nella sua vita.

Dino è infatti incapace di vivere una vita normale: interrompe gli studi e si dedica al vagabondaggio di città in città, vivendo con pochi soldi e spesso in difficoltà con polizia e con altre istituzioni psichiatriche.

Viaggiò molto nonostante tutto: girò l’Italia settentrionale, la Svizzera e Parigi nel 1907; fece un avventuroso viaggio in Argentina nel 1908. Andò vagando a lungo per la Toscana sempre continuando a coltivare la poesia, come sua ossessione e come suo canto intimo e disperato.  I primi frutti di questa vocazione apparvero su fogli goliardici a Bologna (1912-13).

A Firenze riuscì a frequentare i circoli fiorentini della Voce e di Lacerba. Era alla ricerca della sua grande occasione: voleva essere conosciuto, amato, apprezzato, accettato come grande poeta.

Nel 1913 consegna a Soffici e Papini il volume manoscritto delle sue poesie “Il più lungo giorno”.

Era l’unica copia che avesse e purtroppo Soffici perse il manoscritto e Campana, disperato, lo riscrisse a memoria: nacquero così i “Canti orfici”, capolavoro della poesia italiana, pubblicati a sua spese presso un tipografo di Marradi nel 1914. Il famoso manoscritto era stato perduto in un trasloco e fu poi ritrovato nel 1971 dalla figlia di Soffici.

L’amore fece visita al poeta nel corso del 1916-1917: Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, anche lei scrittrice, fu la sua grande musa, il suo grande amore.

La relazione fu turbolenta; fu esaltante e drammatica e finì con l’aggravare ulteriormente la salute mentale già precaria del poeta.

Seguirono il tentativo di arruolarsi nella prima guerra mondiale e altri viaggi. Trascorse i suoi ultimi anni nel manicomio di Castel Pulci, dove fu ricoverato dal 1918 al 1932, anno in cui morì.

3I “Canti orfici” e le altre poesie sparse

Raccolta di poesie "Canti orfici" di Dino Campana. Copertina della prima edizione, 1914
Raccolta di poesie "Canti orfici" di Dino Campana. Copertina della prima edizione, 1914 — Fonte: getty-images

Abbiamo visto quanto la storia dei Canti orfici sia stata burrascosa: la prima stesura manoscritta andò perduta a causa di Soffici e Dino Campana dovette riscrivere tutto a memoria. È ovvio che non potesse ricordare tutto verso per verso, ma certamente si è mosso ricreando le immagini e ricordando i punti fermi del suo dettato poetico.

Ha attuato un processo che Mario Luzi, a seguito del ritrovamento, descrive così, descrivendo le evidenti discrepanze tra l’edizione dei canti orfici e le versioni antecedenti contenute nel famoso manoscritto.

«Alcuni di questi testi (a parte i due poi abbandonati) si trovano qui in una lezione notevolmente diversa da quella nota. Definire il criterio secondo il quale sono avvenuti elisioni, spostamenti, sostituzioni di frasi e parole, tagli e rare aggiunte oltrepassa il mio compito momentaneo e forse anche la mia acribìa. Ma si può affermare con qualche certezza che il ripensamento dei suoi poemi - chi sa, favorito anche della tremenda operazione mnemonica - orienta Campana nel senso di una maggiore condensazione, di una più decisa fusione, di una più forte intensità ritmica. È un po' come se la ricca materia avesse subito un processo di decurtazione a cui non è estranea la sua propria forza di memorabilità» (Corriere della Sera del 17-VI-1971).

Campana ha quindi tagliato, decurtato e condensato le immagini delle sue poesie che trovano quindi sbocco in forme che svariano dalla prosa lirica al verso libero, in stile dannunziano, con immagini in cui echeggia la disperata forza visionaria di Baudelaire.

L’opera si accende di frammenti e di testi lunghi, seguendo frammenti e simbolismi dell’anima del poeta, e del suo inconscio: è un simbolismo denso, pieno di rimandi esoterici. Altre due raccolte sono Taccuinetto faentino (post., 1960) e Fascicolo marradese inedito (post., 1972).

4Poetica di Dino Campana

La formazione poetica di Campana è quindi molto particolare: Carducci, D’Annunzio, Nietzsche, i decadenti francesi, Palazzeschi. Il vecchio e il nuovo che lottano per trovare una sintesi espressiva che però non è mai pacificata. La poesia di Dino Campana pulsa come una stella variabile. Infatti: 

«Mentre altri poeti hanno accettato pacificamente la crisi a cui li costringeva la loro condizione di eredi dell’Ottocento, e nell’abito di questa crisi hanno cercato di sopravvivere con una soluzione personale, in Campana il vecchio e il nuovo assumono le tinte accese del dramma» (Sergio Antonielli, Aspetti e figure del Novecento, 1955).

Visione, simbolo, metafora, analogia, ritmo, enfasi, assolutizzazione della parola… sono queste le risorse nuove e dirompenti di Dino Campana che avrà larga influenza sui poeti successivi, anche se un poeta così originale non permette veri e propri imitatori

Per quanto riguarda la sua poetica, quindi, possiamo definirla simbolista

E quanto ha influito la malattia mentale nella poetica di questo autore? Non poco, sicuramente. Scrive Marco Candida: 

«L’opera è innanzitutto una descrizione dei processi mentali dell’autore: una fotografia, un frammento di modalità di rappresentazione inafferrabili e del tutto singolari. E l’opera di Campana, in questo senso, non delude» (Marco Candida, su minimaetmoralia.it). 

Seguendo l’impulso ritmico interiore ecco che «non solo vengono scartate la grammatica e la punteggiatura consuete (e non nell’inarmonico senso futuristico e non ancora per la critica consapevolezza di libertà odierna), ma anche il modo normale di trarre un senso dalla successione delle parole viene abbandonato» (Antonielli, cit.).

Siamo quindi davanti a un poeta vero, un poeta forse addirittura troppo in avanti rispetto ai suoi tempi che hanno inizialmente vanificato la nostra capacità di cogliere «il giusto fuoco e l’equilibrio del suo viaggio» (Antonielli, cit.). Col senno di poi, oggi riusciamo a cogliere in Dino Campana il tratto distintivo della poesia del Novecento.

4.1I temi di Dino Campana

Sono diversi i temi che troviamo di frequente nelle opere di Dino Campana. Uno di quelli più diffusi e che si trova già all'inizio nella prima parte in prosa dei “Canti Orfici” è quello dell'oscurità, la dimensione in cui si vive fra il sogno e la realtà. Influisce su questo la malattia mentale riconosciuta in Campana. L’autore poi era solito utilizzare spesso aggettivi, avverbi con una certa ripetitività con un effetto eco nelle preposizioni vedi la poesia “l'invetriata”. È caratteristico del poeta l’uso accentuato e drammatico dei superlativi, e il ricorrere a parole chiave creando una forte immagine scenografica. Altri temi esplorati dal Campana sono:

  • le città portuali (Genova su tutte);
  • la matrona barbarica;
  • le enormi prostitute;
  • le pianure ventose;
  • la schiava adolescente.

5Poesie scelte dai “Canti orfici” (1914) e dai Taccuini

Dino Campana
Dino Campana — Fonte: ansa

Il famoso e controverso attore italiano Carmelo Bene ha dedicato ai “Canti orfici” uno spettacolo televisivo in cui con la sua voce magmatica e nasale tenta (e riesce direi) a dare voce alla poesia struggente di Campana che risuona come una musica inquieta.

Dice, infatti, il poeta Andrea Zanzotto: «una poesia come quella di Campana si configura come un flusso ininterrotto di armonie e di disarmonie, di serie melodiche e semantiche che si sovrappongono e s’intrecciano».

5.1O poesia poesia poesia

Cominciamo allora da una poesia alla poesia: O poesia poesia poesia. In questo testo, carico di simboli che si avvicendano in quel flusso incalzante segnalato da Zanzotto, pieno di ripetizioni e di suoni allitteranti si crea come dal niente l’idea di una poesia febbrile e cittadina, dalla mondanità, risalita dalle profondità di un male esistenziale che pervade tutti.

O poesia poesia poesia
Sorgi, sorgi, sorgi

Su dalla febbre elettrica del selciato notturno.
Sfrenati dalle elastiche silhouttes equivoche

Guizza nello scatto e nell’urlo improvviso
Sopra l’anonima fucileria monotona
Delle voci instancabili come i flutti

Stride la troia perversa al quadrivio
Poiché l’elegantone le rubò il cagnolino
Saltella una cocotte cavalletta
Da un marciapiede a un altro tutta verde
E scortica le mie midolla il raschio ferrigno del tram

Silenzio – un gesto fulmineo
Ha generato una pioggia di stelle
Da un fianco che piega e rovina sotto il colpo prestigioso
In un mantello di sangue vellutato occhieggiante
Silenzio ancora. Commenta secco
E sordo un revolver che annuncia
E chiude un altro destino
.

5.2Barche amorrate

È indubbiamente uno dei testi più famosi di Dino Campana, degno di un pittore come Van Gogh tanto forte è l’impressione dell’immagine:

  • le vele si agitano al vento come delle ballerine: tre volte si ripete la parola con il suo articolo, che è la stessa parola e pare scomporsi e ricomporsi insieme all’articolo in una successione di suoni che raggiungono una dimensione fonosimbolica;
  • domina l’anafora, dominano gli enjambements, domina la rima, domina la vertigine dei suoni duri e vibranti;
  • il suono delle parole genera significato.

E così ecco queste ballerine che danzano bianche nel proscenio del mare, sulle barche ormeggiate (amorrate) in un mare mosso che ricorda tanto lo studio op. 25 n. 12 di Chopin. La poesia si innalza nel vento parola per parola a suon di frustate d’aria e di lamenti e di sibili fino a che è l’onda a squassare per ultima con un suono totale, crudele. 

Le vele le vele le vele
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!

Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l'onda che ammorza
Ne l'onda volubile smorza

Ne l'ultimo schianto crudele
Le vele le vele le vele!

5.3La Chimera

È sicuramente il testo più famoso e più riuscito di Dino Campana. Fu pubblicato in rivista nel 1912 e fu poi scelta dal poeta per aprire la sezione dei “Notturni” dei “Canti orfici”.

Soggetto è la mitologica Chimera che sfugge sempre, lontana sull’orizzonte, che agita il desiderio e rende impossibile la quiete.

È l’idea stessa della poesia campaniana, in fondo, che Montale additava già come «una poesia in fuga… che si disfà sempre sul punto di concludere». Come una chimera, che si allontana di nuovo quando siamo sul punto di raggiungerla come in una queste ariostesca.

E allora ecco che Campana ci costringe a seguirlo in questa assurda ricerca dove il femminile, il poetico, la musa, l’amore sono concentrati nella Chimera che va lontana destando un amore che è fonte di dannazione e di gioia.

Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote

Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine

Suora de la Gioconda:

O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente
:
Ma per il tuo ignoto poema

Di voluttà e di dolore

Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:

Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo
,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.

Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore
,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti

E l'immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera
.

5.4In un momento

Sibilla Aleramo
Sibilla Aleramo — Fonte: ansa

È una poesia tratta dai Taccuini, datata 1917. È dedicata a Sibilla Aleramo, sua amante in quel tempo. In questa poesia così tenera e disincantata, piena di ironia e di nostalgia, che fa pensare alla Signorina Felicita di Gozzano, si staglia il simbolismo della rosa: il fiore sempre giovane, che vive poco dopo aver sfolgorato nella luce con la sua bellezza. Come l’amore tra i due giovani, un amore fragile e appassionato

In un momento
Sono sfiorite le rose

I petali caduti

Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose

Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore

Con il nostro sangue e con le nostre lacrime facevamo le rose

Che brillavano un momento con il sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose

P.S. E così dimenticammo le rose.

1917 Taccuino [1949]