Dei Sepolcri di Ugo Foscolo: parafrasi, significato e analisi
Indice
1Il contesto storico
Nel 1804 la legislazione napoleonica con l’editto di Saint-Cloud, impone che i cimiteri siano posti al di fuori delle mura cittadine e che le lapidi siano composte del solo nome del cittadino defunto; il provvedimento agisce su due piani: uno igienico-sanitario, ordinando che le tumulazioni avvenissero lontano dai centri abitati e in luoghi aperti e arieggiati, e uno di stampo ideologico, giacché impedisce la costruzione di mausolei ai nobili (e a tutti quelli che erano in grado di affrontare la spesa) trattando tutti i defunti su un piano di parità; nel caso di personaggi famosi, era una speciale commissione a decidere se fosse il caso di dedicargli o meno un epitaffio, dopo averne valutato i meriti.
Questa misura venne estesa all’Italia solo nel 1806, ma il dibattito attorno ad essa cominciò ben prima, ed è proprio in seguito ad un confronto con Ippolito Pindemonte e Isabella Teotochi Albrizzi che Ugo Foscolo, venuto a conoscenza che il Pindemonte aveva in mente d'iniziare la stesura di un poema dal titolo I cimiteri, inizia a pensare ad un carme sullo stesso argomento.
Nel suo poemetto Foscolo parte dall'idea che il ricordo e i sentimenti veicolati dalle sepolture sono strumenti attraverso cui i defunti continuano a vivere nella memoria dei loro cari, ma lo sviluppa agganciando questa riflessione sia all'attualità, cioè alla novità imposta dalla nuova legislazione francese che guarda con occhio critico, che a un dibattito politico più ampio e di stampo patriottico, per terminare nell'elogio della funzione della poesia che, ben più dei sepolcri, è in grado di rendere eterno l'esempio dei grandi uomini.
2Dei Sepolcri: sequenze del carme
Pubblicato a Brescia nel 1807, il poemetto foscoliano sembra riprendere il discorso sull'utilità delle sepolture lasciato in sospeso con il Pindemonte e la Teotochi Albrizzi. Il carme presenta diverse particolarità, come quella di avere un'impostazione epistolare: ha infatti un destinatario esplicito, che è proprio Ippolito Pindemonte, cui il poeta si rivolge in maniera diretta per tutta la durata dello scritto; inoltre, sull'esempio delle Epistole di Orazio, la ripetizione al vocativo del nome del destinatario segna il passaggio da una sezione all'altra del carme, come emerge dall'O Pindemonte del v.16 (prima sequenza) e del v. 152 (all'inizio della terza sequenza) e dai vv. 213-214 che danno l'inizio alla quarta sequenza; a questa scansione fa eccezione solo la seconda sequenza, che presenta una funzione di raccordo tra la prima e il resto del carme.
Altra particolarità del carme è quella di avere una struttura argomentativa che si distende per tutta l'opera e mostra le sue varie fasi utilizzando accenti a volte orridi o lugubri, altre descrittivi, in un sapiente uso di tonalità differenti che è proprio di chi vuole dare enfasi a un discorso per avvalorarlo; a rafforzare la struttura di questo testo poetico-argomentativo è l'abbondante uso di enjambements, che prolungano il discorso del verso ben oltre la sua stessa durata e contribuiscono a costruire l’impressione di un discorso fluido e continuo rafforzando i toni enfatici.
Dal punto di vista metrico, Foscolo utilizza endecasillabi sciolti.
Subito dopo la dedica al Pindemonte viene riportata una frase in latino, «Deorum manium iura sancta sunto», cioè «I diritti degli dèi Mani sono inviolabili» che, tramandata da Cicerone, proviene direttamente dalle Leggi delle XII tavole, antichissima compilazione di leggi romane dell’età repubblicana.
La citazione dell’epigrafe ha un valore evocativo che da un lato contrappone l’antica legislazione romana, assegnandole così un valore universale, a quella nuova imposta dai francesi e, d’altro canto, evidenzia la disumanità del provvedimento francese che fa valere le leggi dei vivi negando ai morti i loro diritti, in evidente contraddizione con quel concetto latino di piĕtas che è uno dei perni attorno ai quali si sviluppa tutta la riflessione foscoliana.
2.1I Sequenza (Vv. 1-90)
Il carme si apre con una riflessione sulla morte e sul ruolo dei sepolcri da un punto di vista oggettivo che assume un tono marcatamente materialistico: non esistono monumenti, dice il poeta, capaci di consolare l’uomo morente e gli stessi mausolei sono destinati a soccombere alla forza distruttiva del tempo (vv.1-22).
Al v. 16 Foscolo si rivolge direttamente all’amico Pindemonte per l’ultima, amara riflessione sull’ineluttabilità della morte e dell’oscurità a cui lo scorrere del tempo condanna; quando gli dèi scelsero di prendere dimora sull’Olimpo solo la Speranza rimase sulla terra a consolare gli uomini ma, di fronte alla morte, anch’essa fugge (v.17). Già da questi primi versi emergono quei riferimenti alla classicità che caratterizzeranno il resto del carme e che hanno il compito di assolutizzare il discorso foscoliano portandolo al di fuori del piano storico.
Dal v. 23 comincia però una proposizione interrogativa che si distende fino al v. 25 e che ha un valore diverso da quelle presenti nei precedenti versi introduttivi, e che apre ad una nuova fase del discorso in cui il punto di vista si fa soggettivo: il poeta si chiede perché l’uomo dovrebbe privarsi di quell’illusion (v. 24) che lo trattiene fuori dalle porte della città dei morti e quindi, nel ricordo dei suoi cari, ancora in vita. Questa interrogativa dà l’avvio definitivo alla riflessione che si dipanerà per il resto del carme.
La maledizione della morte viene sconfitta solo dal legame emotivo capace di legare il defunto ai vivi, una corrispondenza d’amorosi sensi (v. 30) che le sepolture hanno la capacità e il dono di tenere vive, un sentimento di piĕtas che, per traslazione, al v. 33 viene trasferito alla terra; al contrario, chi non lascia eredità d’affetti (v.41), cioè non lascia legami emotivi dopo la morte, non ha ragione di trovare conforto in una degna sepoltura, e seppure crede in una vita ultraterrena comunque il suo corpo sarà solo concime per le ortiche.
I templi acherontei del v. 43 non vanno intesi in senso paganeggiante e, perciò, in contrapposizione all’aldilà dell’Iddio cristiano del v. 43, ma citando Lucrezio, qui Foscolo intende quel templi come uno spazio delimitato dal fiume Acheronte che si trova all’Inferno: la contrapposizione è quindi tra la dannazione e la salvezza.
Il v. 51 inizia con un Pur che segna un distacco forte rispetto al discorso precedente, e con il quale Foscolo fa riferimento alla pur nuova legge dei francesi, dando a quel ‘nuova’ un valore etimologico, latino, in cui il novus è qualcosa di inaudito, che vìola la norma tradizionale, e che negando i sepolcri e ponendoli al di fuori delle mura cittadine e quindi difficilmente raggiungibili, spezza quel legame affettivo.
A causa di questo provvedimento il Parini, poeta autore de Il giorno, feroce satira di quella parassitaria nobiltà milanese cui il Foscolo fa riferimento parlando del lombardo [..] Sardanapalo (v. 58), giace dimenticato in una tomba senza nome. In questa parte l’autore si rivolge direttamente a Talia (v. 54), musa della commedia, e le chiede dove sia (v. 62): la risposta a questa domanda comincia con un’altra interrogativa, al v. 70, carica di toni compassionevoli e lamentosi, in cui al lauro (v. 44) del Parini fanno da contrappunto quei plebei tumuli (v. 70) in cui la musa cerca inutilmente il suo poeta, così come al tiglio (v. 66) e al giardino dove Parini scriveva e riposava fa da contrappunto la miserevole descrizione seguente che finisce nell’orrido e nello squallido dei vv. 75-90, in cui il corpo dimenticato del poeta viene descritto sepolto chissà dove, e con la testa schiacciata dal piede d’un criminale sulla, mentre in superficie una cagna randagia (v. 79) si aggira in cerca di ossa e l’aria si riempie del verso dell’upupa, uccello che la tradizione greca associa alla morte in maniera sinistra. La particolare carica retorica di questo passaggio ha sia una funzione di sdegno per il modo in cui i milanesi hanno trattato il loro poeta, e inoltre mira a dimostrare come, in assenza di quel legame emotivo veicolato dalle sepolture, persino un grande personaggio come Parini possa essere dimenticato.
2.2II Sequenza (Vv. 91-150)
Citando Giambattista Vico, Foscolo afferma che i sepolcri, insieme alla giurisprudenza dei tribunali, ai matrimoni e alla religione sono le cose che distinguono l’Uomo dagli animali e dimostrano la loro piĕtas (vv. 91-93) e questo rito, con il tempo, si è consolidato e ha assunto un elevato valore sacrale capace di unire l’affetto famigliare e l’amor di patria (v. 103): per la prima volta si accenna al ruolo politico e civile dei sepolcri con una coloritura patriottica, introducendo così un discorso che verrà approfondito maggiormente nelle fasi successive del carme; ma nei versi immediatamente seguenti continua la riflessione sul ruolo civile e sentimentale delle sepolture e di come queste siano state intese presso le varie civiltà.
Durante il Medioevo, ad esempio, queste avvenivano nelle chiese, e le tombe erano decorate con teschi ed altri simboli di morte che provocavano incubi notturni al pensiero dei cari defunti, e spingevano i fedeli a pagare per le messe in loro favore (vv. 104-114). Il tono narrativo, in questo passaggio, si fa di nuovo orrido mentre la descrizione delle madri che balzan ne’ sonni esterrefatte (v. 109) risente dell’eredità dantesca.
Diversamente, i pagani davano riposo ai loro cari in luoghi verdeggianti, dove gli zefiri (v. 115) soffiano dolcemente ed impregnano l’aria di profumi; al v. 119 Foscolo fa riferimento alle sepolture ipogee, e alla necessità di lasciare lì delle lampade per permettere ai vivi di far visita ai defunti: metaforicamente quelle lampade sono scintille di luce, cioè di vita, che i vivi rubano al Sole per donarle ai defunti (vv. 119-123).
Le sepolture inglesi, come quelle classiche, avvengono nei giardini ed hanno le stesse funzioni affettive e civili, suscitando sentimenti di pietà verso i morti e ricordando le loro gesta in modo che fungano da esempio (vv. 130-136).
Ma queste funzioni di coesione patriottica ed esempio civile non hanno ragione d’esistere laddove gl’ideali su cui si basa la società sono la sete di ricchezza e la vigliaccheria (v. 139): il riferimento è, ovviamente, all’Italia; in un contesto simile i sepolcri non sono altro che inutile magniloquenza (inutil pompa, v. 139) e orride immagini di morte (v. 140).
Al v. 143 il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo di cui il poeta parla sono i tre Collegi che nel Regno d’Italia raggruppavano i ceti politicamente più importanti cui era affidato il compito di eleggere i membri del Corpo legislativo: il Collegio di Bologna (il dotto) raggruppava duecento letterati, quello di Brescia (il ricco) duecento commercianti, il Collegio di Milano (il patrizio) duecento proprietari terrieri che, assai verosimilmente, appartenevano tutti al ceto aristocratico.
Nella terzina dei vv. 142-145 Foscolo compie un’aspra critica verso il ceto dirigente italiano che comincia già dalla giustapposizione ossimorica del patrizio vulgo (v.139) e si conclude constatando che questo, seppure ancora in vita (v. 145), è moralmente morto e sepolto in quelle reggie (v. 144) dove, al posto di un onorabile epitaffio, ha come tomba le vuote adulazioni e gli stemmi (v. 145) nobiliari. La sferzante conclusione di questa seconda sequenza apre al tema della terza, che ruota tutto attorno alla funzione civile dei sepolcri.
2.3III Sequenza (Vv. 151-212)
Rivolgendosi di nuovo al Pindemonte (v. 152), Foscolo evidenzia come le tombe dei personaggi che si sono ricoperti di gloria spronino gli uomini dall'animo forte a compiere grandi imprese (vv. 151-152), e contemporaneamente fanno sacra la terra che le ospita (vv. 152-154). Nei versi successivi Foscolo elenca le tombe dei grandi uomini sepolti nella basilica di Santa Croce in Firenze, dal Machiavelli che nel suo Principe, dando consigli ai monarchi, rivelò ai popoli di come il potere si fondi sui lutti e il sangue (v. 158) al Buonarroti che progettò la nuova basilica di San Pietro in Roma (vv. 159-160), al Galilei che confermò la teoria geocentrica (v. 162): il fatto di ospitare queste sepolture rende ancora più felice la città che diede i natali a Dante (v. 173) e Petrarca, quest’ultimo definito, con una delicata metafora, dolce labbro di Calliope (v. 176) come se, insomma, attraverso di lui fosse la stessa musa della poesia a esprimersi.
Coerentemente a quanto detto in precedenza, cioè che le spoglie di personalità grandiose rendono sacra la terra che le ospita, Foscolo asserisce che Firenze è beata (v. 180) perché in una sola chiesa conserva quelle che sono le uniche glorie italiane (v. 181) da quando la forza delle armi è venuta a mancare e la Penisola è diventata terreno di conquista, e gli italiani hanno perso la patria, le ricchezze e gli altari, ma non la memoria del loro glorioso passato (vv. 184-185). E perciò è proprio da Firenze che si trarranno i presagi favorevoli quando la speranza di gloria tornerà a risplendere nella mente degli italiani (vv. 186-188).
Proprio per questo suo ruolo e questo suo destino era sulle rive dell’Arno che l’Alfieri veniva a cercare rifugio e conforto quando era in collera con gli dèi protettori della patria (v. 190), colpevoli di averla abbandonata, e ora che è morto le sue ossa ancora frementi di amor di patria (v. 197) riposano anch’esse nella basilica di Santa Croce. È interessante notare come il ritratto dell’Alfieri, dato con rapide pennellate, dipinga un uomo solitario, meditabondo, corrucciato, dal portamento austero e il viso pallido ma, al tempo stesso, speranzoso: cioè il perfetto ritratto dell’eroe romantico.
Dai sepolcri di questi grandi personaggi, da quella religiosa pace (vv. 197-198), si alza una voce divina che è la stessa voce che diede forza alla virtù e all’ira dei greci (v. 201) quando, nella battaglia di Maratona, sconfissero i persiani. Ancora molto tempo dopo quella battaglia lo scrittore Pausania, aggirandosi con la sua barca di notte vicino ai luoghi di quello scontro, sentiva gli spettri dei soldati morti urlare e dar battaglia al nemico (vv. 201-212). La citazione classica, che subito si tinge di una coloritura epica e sovrannaturale, ha il compito di annullare le distanze temporali, equiparare le glorie greche a quelle italiane, e costruire così un discorso dal sapore assoluto ed eterno che si dispiegherà compiutamente nell’ultima parte del carme.
2.4IV Sequenza (Vv. 213-295)
Un nuovo riferimento a Ippolito, cioè Pindemonte, all’inizio del v. 214 segna l’inizio di una nuova sezione dell’opera. In questo caso non si tratta di una semplice invocazione, ma l’autore si rivolge direttamente all’amico agganciandosi alla precedente allusione a Pausania: il collegamento tra i due è la parola scritta, la poesia, capace di rendere eterna il ricordo delle gesta degli uomini ben più dei sepolcri che ne custodiscono le spoglie, poiché anch’essi sono destinati a essere rovinati dal tempo.
In gioventù Pindemonte aveva navigato per l’Egeo, proprio come Pausania, e se avesse navigato vicino allo stretto dei Dardanelli, cioè l’Ellesponto del v. 217, certamente avrebbe sentito quelle spiagge rumoreggiare mentre riportavano l’armi di Achille (v. 219) sulla tomba di Aiace Telamonio. Il riferimento classico e mitologico qui diventa più complesso, e si rifà ad un passaggio dell’Iliade di Omero in cui il poeta esorta i greci a costruire le tombe dei loro eroi sulle coste dello stretto, in modo da poter essere visibili ai naviganti.
D’altronde, il ruolo evocativo della poesia viene enunciato esplicitamente ai vv. 226-234, quando Foscolo chiede che proprio a lui le Muse affidino il compito di cantare le gesta degli eroi che vivificano il pensiero umano; le Muse custodiscono i sepolcri, e quando il tempo arriva a cancellarne anche le rovine, esse riempiono quei deserti del lor canto (v. 233) sconfiggendo anche quei silenzi che durano mille secoli (v. 234).
Esempio della capacità della poesia di eternare la funzione memoriale dei sepolcri è la tomba della ninfa Elettra, sposa del dio Giove, dalla cui discendenza sorsero Troia e la Giulia gente (v. 240), cioè i romani con il loro impero; in punto di morte chiese a Giove di rendere eterna la sua memoria e il dio fece sacro quel corpo e la sua tomba (v. 253).
In quello stesso luogo venne seppellito Erittonio e Cassandra, figlia del re Priamo, si recava per predire la rovina di Troia per mano degli Achei, e che il destino dei troiani sarebbe stato quello di «pascere i cavalli» ai figli dei greci, cioè di esserne schiavi (vv. 263-265). Ma, nonostante la disgrazia, in quello stesso sepolcro le divinità protettrici della città avrebbero avuto riparo (vv. 269-271), finché un mendico cieco (v. 280), cioè Omero, non sarebbe arrivato ad ascoltare le storie di quelle tombe per raccontare la grandiosità di Troia, due volte rasa al suolo e due volte risorta (v. 285), prima della distruzione definitiva per mano degli Achei, un’impresa che eternerà (v. 290) con la sua poesia, rendendola nota su tutta la Terra.
La quartina conclusiva è dedicata all’eroe troiano Ettore, morto difendendo la sua città, che assurge così a simbolo di amore patriottico, e il cui sacrificio è destinato ad essere ricordato ovunque si consideri santo [..] il sangue per la patria versato (vv. 293-294); in questo modo la tematica sviluppata nella IV sequenza, segnata dai fortissimi riferimenti classici, si ricollega con quella civile e patriottica, trovando una sintesi nella funzione e nel ruolo della poesia.
3Dei Sepolcri: parafrasi
I diritti degli dèi mani sono inviolabili.
All'ombra dei cipressi e nelle tombe
che il pianto consola è forse più dolce
il sonno della morte? Quando davanti a me
il Sole non renderà più feconda questa
terra bella per la famiglia dei fiori e degli animali
E quando, cariche di promesse, davanti a me
non danzeranno più le ore del tempo futuro,
né, mio dolce amico, sentirò più la tua poesia
e il malinconico ritmo che lo distingue,
né più parlerà al mio cuore lo spirito
delle divine Muse e dell'amore,
unico sollievo della mia vita da esule,
come potrà consolarmi dei giorni perduti un sasso
che distingue le mie ossa dalle infinite
altre che la morte semina per terra e per mare?
È vero, Pindemonte! Anche la Speranza,
divinità finale, fugge dai sepolcri; e l'oblio avvolge
tutte le cose nella sua oscurità;
e la forza della natura le trasforma
continuamente; sia l'uomo che le sue tombe
il suo ultimo aspetto e i suoi resti
il tempo trasforma con l'azione della terra e del cielo.
Ma perché l'uomo prima del tempo
dovrebbe privarsi di quell'illusione che anche se morto
lo trattiene alle porte della città dei morti?
Forse che egli non vive anche sottoterra, quando
non vedrà più la poesia del giorno,
se con il dolce rimpianto può risvegliarla
nella mente dei suoi cari? Miracolosa è questa
corrispondenza di sentimenti d'amore,
è una capacità divina degli umani; e spesso
grazie ad essa si vive con il defunto amico
e il defunto insieme a noi, se la terra pietosa
che l'ha accolto e nutrito da bambino,
nel suo ventre materno gli dà l'ultimo asilo,
rendendo quei resti sacri e protetti
dalle offese delle intemperie e dal profanatore
calpestìo della gente, e una pietra ne conservi il nome,
e una pianta amica odorante di fiori
consoli le ceneri con la sua placida ombra.
Soltanto chi non lascia amore in eredità
ha poco interesse nella sepoltura; e anche se guarda ciò
che accade dopo le esequie, vede il suo spirito vagare
fra i pianti degli spazi dell'Acheronte,
o ripararsi sotto le grandi ali
del perdono divino: ma i suoi resti
li lascia alle ortiche di una zolla di terra deserta
dove non c'è donna innamorata che lo piange,
né un passeggero solitario ad ascoltare il sospiro
che la Natura manda dal sepolcro a noi.
Eppure una nuova legge impone che oggi i sepolcri
siano posti lontani dagli sguardi pietosi, e vuol togliere
il nome ai morti. E così senza tomba riposa il tuo
sacerdote, o Talia, che cantando te
nella sua modesta casa fece cresce l'alloro
con le sue cure amorose, con il quale ti appendeva corone;
e tu col tuo sorriso decoravi le sue poesie
col quale sbeffeggiava il Sardanapalo lombardo
che apprezza solo il muggito dei buoi
che dalle stalle dell'Adda e dal Ticino
lo fanno vivere negli ozi e nell'abbondanza.
Oh, bella Musa, dove sei? Non sento
l'odore dell'ambrosia, indizio della tua presenza,
fra queste piante sotto le quali io mi siedo e rimpiango
la mia casa materna. Eppure tu venivi qui e
a lui sorridevi mentre era seduto sotto quel tiglio
che ora con umili fronde trema di sdegno
perché non ripara, o Dea, l'urna di quel vecchio
cui da vivo dava tranquillità e ombra.
Forse tu tra i cimiteri suburbani vaghi
cercando, dove riposa il sacro capo
del tuo Parini? In sua memoria non un albero ombroso
pose tra le sue mura la città, che lascivamente
attira cantanti evirati,
non un monumento, non una targa; e forse le sue
sono sporcate del sangue di un ladro decapitato
che sul patibolo ha pagato per i suoi delitti.
Senti raspare tra le tombe in rovina e i cespugli
la cagna randagia che vaga
sui fosse e ulula famelica;
e l'ùpupa uscire dal teschio, ove se'era riparata dalla luna,
e svolazzare tra le croci
sparse per la grigia campagna,
e l'immondo uccello accusare col suo funereo
canto i raggi che le pie stelle danno
alle sepolture dimenticate. Invano
sul tuo poeta, o Dea, chiedi rugiada
dalla squallida oscurità. Ahi! Sui defunti
non sorge un fiore se non è onorato
d'umana preghiera e amoroso pianto.
Dal giorno in cui i matrimoni e i tribunali e gli altari
diedero agli umani selvaggi il sentimento di pietà
verso sé stessi e gli altri, i vivi sottraevano
alle malvagie intemperie e alle bestie
i miseri avanzi che la Natura
destina ad altre forme d'esistenza.
Le tombe erano testimonianza di gesta grandiose,
e altari per i figli; e da queste uscivano i
responsi degli avi defunti, ed era rispettato
il giuramento fatto su queste sepolture:
una credenza questa che in diversi modi
unì le virtù civili e l'amore famigliare
per lungo tempo.
Non sempre le lapidi sepolcrali fecero
da pavimento ai templi; né gli incensi
insieme al puzzo dei cadaveri avvolsero
i fedeli; né le città furono rattristate
d'immagini di morte: le madri
si svegliano di soprassalto, e allungano
le braccia nude sull'amata testa
del loro neonato perché non lo svegli
il lungo pianto di una persona morta
che chiede messe a pagamento ai suoi eredi
dalla chiesa. Ma i cipressi e i cedri
mentre impregnavano i venti di profumi
le sempreverdi chiome protendevano sulle tombe
preservando il ricordo perenne, e come preziosi
vasi accoglievano le lacrime date in voto ai defunti.
Gli amici rapivano una scintilla al Sole
per illuminare quella notte sotterranea
perché gli occhi dell'uomo morente cercano
il Sole; e tutti i petti inviano
il loro ultimo respiro alla luce che svanisce.
Le fontane che versavano acque purificatrici
facevano crescere amaranti e viole
sulla terra di sepoltura; e chi stava seduto
a versare latte e a raccontare le sue pene
ai cari defunti, si sentiva circondato
d'un profumo come quello dei Campi Elisi.
La pietosa illusione che fa preziosi i campi
dei sepolcri suburbani alle giovinette
inglesi dove le conduce l'amore
per la madre perduta, dove clementi
pregarono i Genii per proteggere il ritorno di quel coraggioso
che abbatté alla nave sconfitta
il suo albero maestro, e vi si scavò la bara.
Ma lì dove dorme il furente desiderio di gesta coraggiose
e la vita civile è amministrata
in base alla ricchezza e alla paura, sono inutile coreografia
e malauguranti immagini di Morte
i cippi marmorei che sorgono e i monumenti di marmo.
Il popolo dotto, ricco e patrizio,
che nobilita e guida il bel regno Italico,
è sepolto tra le adulazioni nelle regge
ancora vivo, con gli emblemi come unica lode. A me
la morte prepari un tranquillo riposo
una volta che la fortuna abbia finito
di perseguitarmi, e l'affetto degli amici possa raccogliere
non ricche eredità, ma l'esempio
di sentimenti accorati e di una poesia che canta libera.
L'animo dei forti è acceso dal desiderio di grandi imprese
dai sepolcri dei grandi uomini, oh Pindemonte; e bella
e sacra fanno apparire al forestiero la terra
che le accoglie. Quand'io il monumento
vidi in cui è sepolto il corpo di quel grand'uomo
che rinforzando il potere dei sovrani
lo priva dell'alone di gloria, e svela alle genti
di quali lutti e quale sangue esso grondi;
e la tomba di colui che un nuovo Olimpo
per gli dèi innalzò a Roma; e quella di colui
sotto la volta celeste roteare
diversi pianeti, e il Sole fermo a illuminarli,
in modo che a quell'Inglese che così tanto lo esplorò
aprì per primo le via del cielo;
tu sei beata, gridai, per la tua felice
aria impregnata di vita, e per quei fiumi
che l'Appennino ti versa dai suoi valichi!
La Luna felice veste la tua aria
di luce limpidissima i tuoi colli
che festeggiano le vendemmie, e le valli laterali
popolate di case e di oliveti
e migliaia di fiori spandono al cielo il loro profumo:
e tu per prima, oh Firenze, udisti quel poema
che addolcì la rabbia dell'esule Ghibellino,
e tu desti i genitori e la lingua
a quella dolce bocca di Calliope
che quell'Amore sensuale tanto in Grecia come a Roma
ricoprì con un pudico velo bianco,
e lo ripose nel ventre della dea Venere:
ma tu sei più che beata perché raccolte in una chiesa
conservi le glorie italiane, forse le uniche
da quando le Alpi insicure e l'alternarsi
di quella fortuna umana che tutto può
ti fecero perdere con le invasioni gli eserciti, le ricchezze, i templi
e la stessa patria e ogni cosa, tranne la memoria.
E quando una speranza di gloria nelle inquiete
menti e sull'Italia tornerà a risplendere,
da questa Chiesa trarremo i presagi favorevoli. E su questi monumenti
venne spesso Vittorio in cerca d'ispirazione.
Furente con gli dèi della Patria, vagabondava in silenzio
nelle parti più disabitate di Firenze, guardando i campi e il cielo
pieno di desiderio; e siccome nessun essere
vivente gli addolciva quel dolore,
qui veniva a riposarsi quell’uomo austero; e aveva sul volto
il pallore della morte e della speranza.
Ora con questi grandi uomini dimora per l’eternità: e le sue
ossa ancora vibrano di amor di Patria. Ah si! da quel
riposo dello spirito una divinità parla:
e nutrì l’ira e il coraggio dei greci
contro i persiani alla battaglia di Maratona
dove Atene consacrò le tombe dei suoi valorosi. Colui che navigò
con le sue vele nelle acque al di sotto dell’Eubea,
vedeva nella grande oscurità della notte lo scintillìo
lampeggiante degli elmi e delle spade che s’incrocavano,
le pire funebri emettere fumo e fuoco, lampeggianti
armi di ferro vedeva e spettri di guerrieri
in cerca di battaglia; e nell’orrido silenzio
della notte si spandeva per i campi
il clamore delle falangi e il suono delle tue di guerra
e lo strepitio dei cavalli al galoppo
imbizzarriti sugli elmi dei moribondi,
e pianti, e canti di guerra, e il canto delle Parche.
Sei felice tu che il grande regno del mare,
Ippolito, percorrevi nella tua giovinezza!
E se il timoniere ti diresse la nave
oltre le isole Egee, d’antiche imprese
di certo ascoltasti echeggiar le spiagge dell’
Ellesponto, e la marea rimbombare mentre portava
alle rive del Bosforo le armi di Achille
fin sulle ossa di Aiace: ai grandi uomini
la morte con giustizia elargisce gloria;
né l'astuzia né il favore dei re
potevano conservare all'Itacese quelle armi così difficili da conquistare,
perché a quella nave che andava vagando sul mare le riprese
la tempesta del mare agitato dagli Dèi.
E a me, che a causa delle circostanze e del desiderio d'onore
mi costringono all'esilio,
le Muse chiamino me per evocare quegli eroi
che danno forze al pensiero dei vivi.
Esse siedono a custodire i sepolcri, e quando
le fredde ali del tempo arrivano a spazzarvi
finanche le rovine, le Pimplee danno gioia
con la loro poesia i deserti, e con la musica
vincono mille secoli di silenzio.
E oggi nella Troade deserta
splende eternamente per i viandanti un luogo
reso eterno dalla Ninfa alla quale fu sposo
Giove, e che a Giove diede Dardano come figlio
da cui si originarono Troia e Assaraco e i cinquanta
letti nuziali di Priamo e la stirpe di Roma.
Ma quando Elettra udì la Parca
che dalle vive arie del giorno la
richiamava ai Campi Elisi, a Giove
ella fece l'ultima preghiera: «E se – diceva-
amasti i miei capelli e il volto
e le dolci notti passate insieme, e non mi concede
il fato l'immortalità in premio
almeno proteggi dal cielo la tua amante morta
in modo che della tua Elettra resti il ricordo».
Moriva pregando in questo modo. E se ne addolorava
Giove, e scuotendo il capo immortale
faceva piovere ambrosia dai capelli sulla Ninfa
rendendo sacro quel corpo e la sua tomba.
Su quella fu seppellito Erittonio, e dormono il sonno dei giusti
le ceneri di Ilo; su quella le troiane
scioglievano i loro capelli per allontanare, invano!,
l’imminente destino dei loro mariti;
su questa tomba Cassandra, quando lo spirito che aveva in petto
le fece predire il giorno della caduta di Troia,
venne; e agli spiriti cantò una lirica di amor di patria,
e su quella guidava i nipoti, e quel canto d’amore
insegnava ai giovani.
E diceva sospirando: « Oh, se mai dalla Grecia,
dove al figlio di Tideo e a quello di Laerte
farete pascolare i cavalli, il destino vi
permetterà di tornare, invano cercherete
la vostra patria! Quelle mura costruite da Apollo
fumeranno cadute in rovina.
Ma le divinità protettive di Troia avranno riposo
in queste tombe; perché gli dèi della patria hanno il privilegio
di conservare la nobiltà del nome anche nella rovina.
E voi, palme e cipressi piantate dalle
nuore di Priamo, che crescerete in fretta
innaffiate dalle lacrime delle vedove,
proteggete i miei antenati: e colui che, pietosamente,
terrà lontana la sua ascia dalle vostre devote chiome
avrà meno dolore dalla morte dei famigliari
e con mani pure toccherà gli altari.
Proteggete i miei antenati. Un giorno vedrete
un cieco mendicante aggirarsi sotto le vostre
antichissime ombre, e andando a tentoni
entrare nei sepolcri, e abbracciare le sepolture,
e interrogarle. Piangeranno quei fossi
nascosti, e la tomba racconterà tutta
la storia di Ilio due volte distrutto e due volte ricostruito
splendidamente sulle strade deserte
per rendere più gloriosa l’ultima distruzione
che il destino assegnerà ai Greci. Il santo poeta
consolando quelle anime addolorate con la poesia,
i principi greci renderà immortali su tutte
le terre che il grande padre Oceano abbraccia.
E tu, Ettore, sarai onorato di pianti
ovunque sarà considerato santo e pianto il sangue che
si versa per la patria, e finché il Sole
risplenderà sulle disgrazie umane».
4Dei Sepolcri: tematiche principali
Dei Sepolcri è un'opera complessa e densa di significati, in cui si intrecciano riflessioni sulla morte, la storia, la natura, la memoria e la funzione civile della poesia e dei sepolcri. Tra le tematiche principali del componimento emergono:
- Il valore della memoria e dei sepolcri: per Foscolo le tombe sono simboli di un legame tra i vivi e i morti e, proprio attraverso i sepolcri, gli uomini possono mantenere in vita la memoria di chi non c'è più.
- Funzione civile delle tombe: i sepolcri hanno anche una funzione patriottica e civile, infatti, le tombe dei grandi uomini possono ispirare le future generazioni. Il ricordo degli illustri personaggi storici diventa fonte di ispirazione e un esempio da seguire.
- Riflessione sulla morte, l'immortalità e il ruolo della poesia: il poeta, pur consapevole della fugacità della vita, ricerca un senso di eternità attraverso la poesia e la memoria. La poesia diventa uno strumento utile a garantire una forma di immortalità, poiché è capace di rendere eterna la memoria delle imprese degli uomini, ben più delle tombe.
5Guarda il video sul carme Dei Sepolcri di Foscolo
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Domande & Risposte
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Quando è stato scritto il carme Dei Sepolcri?
Nel 1806, in occasione dell’editto di Saint-Cloud emanato da Napoleone, con il quale l'imperatore impose ai cittadini che i cimiteri siano posti al di fuori delle mura cittadine e che le lapidi siano composte del solo nome del cittadino defunto.
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Qual è il significato del carme Dei Sepolcri?
Il ricordo e i sentimenti veicolati dalle sepolture sono strumenti attraverso cui i defunti continuano a vivere nella memoria dei loro cari.
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Dove è stato composto il carme Dei Sepolcri?
Presso Palazzo Martinengo a Brescia, dove era ospite.