De Vulgari Eloquentia di Dante Alighieri: analisi, temi e significato
Indice
1Dante e la riflessione sul volgare
È facile identificare nell'intera esperienza letteraria di Dante Alighieri la massima espressione, almeno sotto il profilo letterario, della civiltà comunale italiana del medioevo, e questo non solo per l'aspetto formale e contenutistico delle sue opere, ma anche per la capacità di analisi e la consapevolezza rispetto alle forme linguistiche.
Dal X secolo in poi il volgare si era progressivamente affermato anche come lingua scritta in tutta l’Europa occidentale, ed in Italia arriva ad una definitiva imposizione proprio nell’ambito della società comunale, dove giuristi, commercianti, notai, uomini religiosi e poeti lo utilizzano al posto del latino per le loro incombenze quotidiane e per scrivere le loro Laudes ed i loro componimenti.
Nel De Vulgari Eloquentia Dante affronta in maniera critica i problemi attorno a questo nuovo strumento della lingua volgare che si stava progressivamente imponendo come lingua letteraria e, perciò, colta.
L'indagine sugli stili letterari non era certamente una novità, era anzi una delle tante cose che gli intellettuali del medioevo avevano ereditato direttamente dal mondo classico e che riproponevano ripetendone le forme e i contenuti: ne è un esempio la Rettorica scritta da Brunetto Latini, volgarizzamento del De inventione di Cicerone, in cui il poeta contemporaneo e amico di Dante (che però lo metterà nel Settimo cerchio dell'Inferno) illustra l’importanza dell’arte retorica.
Dante però si allontana nettamente da quella tradizione e progetta un'opera ambiziosa e innovativa, ma rimasta incompiuta, dove indaga sulle forme della lingua volgare ricostruendone le origini, in cui descrive le forme dei vari volgari italiani, operando tra questi un'attenta selezione allo scopo di arrivare alla definizione di un volgare 'illustre', cioè adatto ad essere usato in ambito letterario.
Altra caratteristica del De Vulgari Eloquentia è quella di essere scritta in latino, cioè nella lingua colta per definizione, la lingua dei dotti e dei trattati universitari, indicativo del fatto che l'intenzione dell'autore fosse proprio quella di redarre un testo di analisi e di prospettiva sull'uso della lingua: in altre parole si può dire che Dante sia stato il primo ad intuire la portata di quel 'dibattito sulla lingua italiana' che avrebbe tenuto banco tra i letterati italiani dal XV secolo in poi.
2De Vulgari Eloquentia
2.1Il Libro Primo: analisi e spiegazione
Il primo dei due libri dell'opera si compone di diciannove capitoli e si concentra nell'ambito prettamente linguistico del discorso inquadrandolo, in primo luogo, in una prospettiva storica. Il latino, dice Dante, è una lingua artificiale e inadatta all'uso quotidiano (pensava che persino gli stessi romani usassero un proprio volgare, adibendo il latino a sola lingua scritta).
Prima che Dio lo frammentasse in seguito alla distruzione della torre di Babilonia, gli uomini parlavano un unico e identico linguaggio, il prodotto della frammentazione sono i volgari che mutano e differiscono oltre che in base alla geografia e ai popoli che li parlano, anche nel tempo: l'evoluzione della linguaggio su base temporale è la prima grande intuizione dantesca.
La seconda è l'aver individuato e distinto i volgari europei in tre grandi gruppi: quello greco, quello germano/slavo e quello occidentale che a sua volta suddivide in tre ceppi: le lingue d'oc e d'oil, parlate in area francese, ed il si, con il quale intende i volgari italiani.
Fatto ciò, Dante procede con il dividere la penisola in senso longitudinale, quindi lungo gli appennini, per analizzarne le diverse parlate volgari per arrivare ad individuare quello che maggiormente si adatta alla sua idea di 'volgare illustre', cioè adatto all'uso letterario, ma nessuno soddisfa quei requisiti ritenuti necessari.
Il volgare ricercato da Dante deve essere illustre, nel senso che deve dare decoro a chi lo usa, cardinale, in quanto deve fungere da cardine rispetto alle altre parlate, aulico, cioè degno di poter essere usato alla presenza di un sovrano, ed infine curiale, cioè tanto nobile da poter essere usato a corte; nessuno dei volgari italiani, nemmeno il fiorentino o il toscano, hanno queste virtù e rimangono ancorati ad una dimensione 'municipale' e 'plebea', tuttavia questa lingua così particolare ed elevata si può ritrovare nelle opere di alcuni autori.
2.2Il Libro Secondo del De Vulgari Eloquentia: analisi e spiegazione
Più precisamente si può dire che, non ritrovando quelle caratteristiche in nessun volgare, Dante arriva a definirlo attraverso le opere di alcuni autori che ritiene esemplari. E nel secondo libro comincia una sorta di excursus letterario in cui indica quali autori, e in quali opere, hanno espresso meglio i vari argomenti, da quelli morali a quelli amorosi o guerreschi.
Ma siccome per Dante la letteratura è soprattutto un fatto linguistico, cioè qualcosa di concreto che esige una sua precisa formalità, indica anche le modalità in cui questo volgare debba esprimersi: e la Canzone risulta senz’altro la forma metrica più adatta per esprimere lo stile tragico, e questa poi va costruita secondo il rigoroso metro dell’endecasillabo o del settenario.
3La novità ed il canone del De Vulgari Eloquentia
Il secondo libro, e quindi il De Vulgari Eloquentia, si interrompe bruscamente ad un punto del XIV capitolo. Dimenticato per molto tempo, questo trattatello incompiuto viene riscoperto dal Trissino nel 1514, cioè nel pieno di un dibattito sulla questione della lingua che però aveva già individuato in Petrarca e Boccaccio i suoi letterati di riferimento, marginalizzando progressivamente l’Alighieri; inoltre vennero da subito avanzati forti dubbi sulla paternità del testo, e solo un serio studio filologico compiuto a fine Ottocento attribuì in maniera definitiva il trattato al suo vero autore.
L’intenzione alla base del De Vulgari Eloquentia è quella di definire un canone linguistico partendo dalla constatazione della frammentazione delle varie parlate regionali e dell’inadeguatezza di ciascuna di loro ad assurgere al ruolo di lingua nobile e rappresentativa dell’intero contesto italiano, una tensione teorica che si risolve nell’individuazione di esempi letterari che possono fungere da modello per il ‘volgare illustre’.
Perciò Dante, ed è qui l’altra grande novità, passa a definire concretamente un canone letterario definito da una serie di scrittori e dalle loro opere, facendo emergere legami tra diverse esperienze letterarie da lui ritenute apprezzabili e lasciandone invece ai margini altre. Se da un lato esplicita i legami tra la poesia provenzale e la scuola siciliana, dall’altro tace del tutto fenomeni come quello della poesia religiosa umbra (di cui erano parte pure Francesco d’Assisi), e svilisce autori come Guittone d’Arezzo e Brunetto Latini.
Infine la linea evolutiva del volgare illustre, così abbozzata dall’Alighieri, trova il suo culmine contemporaneo nella poetica stilnovista: la precedenza cronologica spetta alla scuola bolognese e a Guido Guinizzelli, i primi a sviluppare quei temi e quello stile che poi troveranno compimento nella scuola toscana di cui sono parte Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e lo stesso Dante.
L’importanza del De Vulgari Eloquentia risiede perciò nell’aver anticipato, in un certo senso, il dibattito attorno all’uso della lingua volgare definendo non solo dei principi teorici, ma anche un canone concreto che si sviluppa attorno ad una precisa linea evolutiva che parte dalla Provenza ed arriva alla Toscana passando per il meridione Normanno-Svevo.