Canto XXIV del Purgatorio di Dante: testo, parafrasi, personaggi e figure retoriche

Testo, parafrasi, figure retoriche e personaggi del canto XXIV del Purgatorio di Dante, il canto che si svolge nella VI Cornice. Sintesi del canto in cui Dante e Virgilio incontrano Bonagiunta e ascoltano la profezia di Forese sulla morte di Corso Donati.
Canto XXIV del Purgatorio di Dante: testo, parafrasi, personaggi e figure retoriche
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1Testo del canto XXIV del Purgatorio

Canto XXIV Purgatorio, l'albero dei golosi
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Il canto XXIV del Purgatorio è quello che conclude il passaggio attraverso la cornice dei golosi ed è famoso per essere il canto che attesta la nascita del Dolce Stil Novo dopo il famoso dialogo tra Bonagiunta Orbicciani e Dante, che qui presenta la sua poetica e l’ispirazione amorosa della sua poesia. Si tratta di un canto affascinante, che affronta diversi temi e, anche per questo, molto complesso.  

Né 'l dir l'andar, né l'andar lui più lento
facea, ma ragionando andavam forte
,   

sì come nave pinta da buon vento;
e l'ombre, che parean cose rimorte,
per le fosse de li occhi ammirazione
traean di me, di mio vivere accorte.
E io, continüando al mio sermone,
dissi: "Ella sen va sù forse più tarda
che non farebbe, per altrui cagione.
Ma dimmi, se tu sai, dov'è Piccarda;   

dimmi s'io veggio da notar persona
tra questa gente che sì mi riguarda
".
"La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, trïunfa lieta
ne l'alto Olimpo già di sua corona".
Sì disse prima; e poi: "Qui non si vieta
di nominar ciascun, da ch'è sì munta
nostra sembianza via per la dïeta
.
Questi", e mostrò col dito, "è Bonagiunta,   

Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
di là da lui più che l'altre trapunta
ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:   

dal Torso fu, e purga per digiuno
l'anguille di Bolsena e la vernaccia
".
Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
e del nomar parean tutti contenti,
sì ch'io però non vidi un atto bruno.
Vidi per fame a vòto usar li denti   

Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturò col rocco molte genti.
Vidi messer Marchese, ch'ebbe spazio
già di bere a Forlì con men secchezza
,
e sì fu tal, che non si sentì sazio.
Ma come fa chi guarda e poi s'apprezza
più d'un che d'altro, fei a quel da Lucca,
che più parea di me aver contezza.
El mormorava; e non so che "Gentucca"
sentiv'io là, ov'el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca.
"O anima", diss'io, "che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch'io t'intenda,
e te e me col tuo parlare appaga".   

"Femmina è nata, e non porta ancor benda",
cominciò el, "che ti farà piacere
la mia città, come ch'om la riprenda
.   

Tu te n'andrai con questo antivedere:   

se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere
.   

Ma dì s'i' veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando   

"Donne ch'avete intelletto d'amore".
E io a lui: "I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando
".   

"O frate, issa vegg'io", diss'elli, "il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne   

di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;
e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l'uno a l'altro stilo";
e, quasi contentato, si tacette.
Come li augei che vernan lungo 'l Nilo,
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo,
così tutta la gente che lì era,
volgendo 'l viso, raffrettò suo passo,
e per magrezza e per voler leggera.   

E come l'uom che di trottare è lasso,
lascia andar li compagni, e sì passeggia
fin che si sfoghi l'affollar del casso,
sì lasciò trapassar la santa greggia
Forese, e dietro meco sen veniva
,   

dicendo: "Quando fia ch'io ti riveggia?".
"Non so", rispuos'io lui, "quant'io mi viva;
ma già non fïa il tornar mio tantosto,
ch'io non sia col voler prima a la riva;   

però che 'l loco u' fui a viver posto,
di giorno in giorno più di ben si spolpa,
e a trista ruina par disposto
".
"Or va", diss'el; "che quei che più n'ha colpa,   

vegg'ïo a coda d'una bestia tratto   

inver' la valle ove mai non si scolpa.
La bestia ad ogne passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch'ella il percuote,
e lascia il corpo vilmente disfatto.
Non hanno molto a volger quelle ruote",
e drizzò li ochi al ciel, "che ti fia chiaro
ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote
.
Tu ti rimani omai; ché 'l tempo è caro
in questo regno, sì ch'io perdo troppo
venendo teco sì a paro a paro".   

Qual esce alcuna volta di gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi
,
e va per farsi onor del primo intoppo,
tal si partì da noi con maggior valchi;   

e io rimasi in via con esso i due   

che fuor del mondo sì gran marescalchi.
E quando innanzi a noi intrato fue,
che li occhi miei si fero a lui seguaci,
come la mente a le parole sue,   

parvermi i rami gravidi e vivaci
d'un altro pomo, e non molto lontani
per esser pur allora vòlto in laci.
Vidi gente sott'esso alzar le mani
e gridar non so che verso le fronde,
quasi bramosi fantolini e vani
che pregano, e 'l pregato non risponde,
ma, per fare esser ben la voglia acuta,
tien alto lor disio e nol nasconde
.   

Poi si partì sì come ricreduta;
e noi venimmo al grande arbore adesso,
che tanti prieghi e lagrime rifiuta.   

"Trapassate oltre sanza farvi presso:
legno è più sù che fu morso da Eva,
e questa pianta si levò da esso
".   

Sì tra le frasche non so chi diceva;
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,   

oltre andavam dal lato che si leva.
"Ricordivi", dicea, "d'i maladetti
nei nuvoli formati, che, satolli,
Tesëo combatter co' doppi petti;
e de li Ebrei ch'al ber si mostrar molli,
per che no i volle Gedeon compagni,
quando inver' Madïan discese i colli"
.   

Sì accostati a l'un d'i due vivagni
passammo, udendo colpe de la gola
seguite già da miseri guadagni.
Poi, rallargati per la strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
contemplando ciascun sanza parola.   

"Che andate pensando sì voi sol tre?".
sùbita voce disse; ond'io mi scossi
come fan bestie spaventate e poltre
.   

Drizzai la testa per veder chi fossi;
e già mai non si videro in fornace
vetri o metalli sì lucenti e rossi,
com'io vidi un che dicea: "S'a voi piace
montare in sù, qui si convien dar volta;
quinci si va chi vuole andar per pace
".   

L'aspetto suo m'avea la vista tolta;
per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori,
com'om che va secondo ch'elli ascolta.   

E quale, annunziatrice de li albori,
l'aura di maggio movesi e olezza,
tutta impregnata da l'erba e da' fiori;
tal mi senti' un vento dar per mezza
la fronte, e ben senti' mover la piuma,
che fé sentir d'ambrosïa l'orezza.
E senti' dir: "Beati cui alluma
tanto di grazia, che l'amor del gusto
nel petto lor troppo disir non fuma,
esurïendo sempre quanto è giusto!”
.

2Coordinate del canto XXIV del Purgatorio:

  • Luogo e tempo: sesta cornice, fino al passaggio che conduce alla settima. Le prime due ore pomeridiane del 12 aprile (o del 29 marzo) del 1300.
  • Allegoria: l’albero all’uscita dalla cornice: è l’albero della conoscenza del bene del male.
  • Cose notevoli: colloquio con Bonagiunta sul “dolce stil novo”. Le predizioni di Forese Donati.
  • Custode: L’angelo dell’astinenza che cancella la sesta P dalla fronte di Dante; canta “Beati qui exuriunt iustitiam”.
  • Colpa e pena: I golosi: percorrono velocemente la cornice, soffrendo la fame e la sete, che li rendono orribilmente magri.
  • Esempi: di temperanza e di golosità punita.

3Parafrasi del canto XXIV del Purgatorio

Nè il parlare rallentava l’andare, né l’andare rendeva più lento il dire: ma, ragionando, procedevamo di buon passo come una nave spinta da buon vento. Le anime, che parevano quasi essere due volte morte, attraverso gli incavi degli occhi restavano ammirate di me, meravigliate del mio essere vivo. E io, proseguendo nel mio discorso, dissi: «Quell’anima forse sta salendo a Dio forse più lentamente di quanto potrebbe, per causa d’altri (il piacere di stare con Virgilio). Ma dimmi, se lo sai, dove si trova Piccarda: dimmi se tra questa gente che mi riguarda c’è qualcuno che io posso notare». «La mia sorella che non so se fosse più buona o bella, trionfa già con la sua corona nell’alto dei Cieli». Così disse per prima e poi: «Qui non è vietato nominare ciascuno, dal momento che la sembianza di tutti è sfigurata dalla dieta. Questo qui» e accennò con il dito «è Bonagiunta, quello di Lucca; e quel viso oltre di lui, con la pelle ancora più trapuntata, tenne la Santa Chiesa tra le sue braccia. Fu di Tours, e si purga attraverso il digiuno delle anguille di Bolsena e della vernaccia». Mi nominò molti altri ad uno ad uno e tutti sembrano contenti dell’essere nominati, sì che io non notai alcun gesto di stizza. Vedi per la fame mordere a vuoto Ubaldino della Pila e Bonifacio dei Fieschi che intrattenne in banchetti molte genti. Vidi messer Marchese (di Forlì), che ebbe già spazio di bere a Forlì con minore riserva in modo tale da non saziarsi mai. Ma come fa chi guarda e poi osserva con più insistenza qualcuno in particolare, così feci con Bonagiunta che sembrava più degli altri desideroso di conoscermi. Lui mormorava e mi sembrava che avesse detto «Gentucca», lì dove la piaga della giustizia li faceva pentire maggiormente (la bocca). «O anima» dissi io «che sembri così desiderosa di parlare con me, fa in modo che io ti possa capire e appaga sia me sia te con il tuo parlare». Lui iniziò: «È nata una femmina, ancora adesso giovinetta, che ti renderà gradita la mia città, anche se tutti ne parlano male. Andrai via di qui con questa previsione: se a causa del mio mormorare non hai capito bene, le cose vere ti sapranno dire meglio. Ma dimmi se io vedo qui davanti me colui che iniziò un modo nuovo di poetare con la canzone “Donne ch’avete intelletto d’amore”». E io gli risposi: «Io sono uno che, quando Amore lo ispira, scrivo e nel modo in cui mi detta dentro cerco di mettere il tutto in significati ed espressioni». «O fratello, adesso io vedo» disse lui «il nodo che trattenne il Notaio e Guittone e me al di qua del dolce stil che adesso ascolto. Io vedo bene come le vostre penne vanno dietro strette strette a colui che detta, cosa che certamente non avvenne per le nostre e se uno volesse procedere oltre, non vedrebbe altra differenza dall'uno all'altro stile»; e poi tacque, come se la cosa lo soddisfacesse. Come li uccelli che svernano lungo il Nilo, alcune volte fanno una schiera nel cielo, poi volano con maggior fretta e vanno in fila; allo stesso modo la gente che era lì, girando il viso, affrettò il passo, leggera per la volontà e per la magrezza. E come l’uomo che è stanco di trottare lascia andare avanti i compagni e così passeggia affinché possa terminare la palpitazione del petto, così Forese lasciò trapassare la santa greggia e se ne veniva dietro di me dicendo: «Quando potrò mai rivederti?» Risposi io a lui: «Non lo so, non so quanto io vivrò, ma il mio ritorno qui non sarà mai così rapido che io con la volontà non approdi prima sulla spiaggia del Purgatorio; infatti, Firenze, il luogo dove nacqui, si spoglia di giorno in giorno del bene e sembra pronta per una triste rovina». «Adesso va’», disse lui; «perché quello che più ne ha colpa, vedo io tratto da una bestia verso la valle dove ma non ci si discolpa. La bestia va più veloce ad ogni passo, crescendo sempre, finché lei lo percuote e lascia il corpo orribilmente sfatto. Non gireranno a lungo le ruote dei cieli» e alzò gli occhi al cielo, «che infine capirai ciò che le mie parole più oltre non possono dire. Adesso starai per conto tuo, perché il tempo è prezioso in questo regno, al punto che io ne perdo troppo proseguendo passo passo insieme a te». Come il cavaliere che fa un’incursione esce a volte al galoppo dalla sua schiera e va per prendere l'onore del primo assalto, così Forese si allontanò da noi con passi più rapidi; e io rimasi sulla via con gli Virgilio e Stazio che furono illustri maestri del mondo. E quando Forese si fu allontanato da noi e io lo seguivo a fatica con lo sguardo proprio come la mia mente a fatica ripensava alle sue parole, vidi i rami carichi di un altro albero, e non molto lontano poiché solo allora avevo rivolto in là lo sguardo. Vidi persone sotto di esso alzare le mani e gridare non so quali parole verso le fronde, come se fossero dei bambini desiderosi e incapaci che pregano, e il pregato non risponde, ma per acuire il loro desiderio, tiene sempre acceso il loro desiderio e non glielo nasconde. Poi si allontanarono come essendosi ricreduti e noi giungemmo proprio allora all’albero che rifiuta tante preghiere e tante lacrime. «Andate oltre senza avvicinarvi: più su c’è l’albero violato da Eva e questa pianta crebbe da quello». Così tra le fronde qualcuno, ma non so chi, stava parlando, in modo che noi tre poeti andavamo oltre attaccati alla parete della montagna. La voce diceva: «Ricordatevi dei maledetti centauri nati da una nube, che combatterono ubriachi contro Teseo coi doppi petti; e degli Ebrei che si mostrarono inclini al bere, per cui Gedeone non li volle con sé quando discese i colli marciando contro i Madianiti». Accostati all'orlo interno della cornice, passammo oltre ascoltando gli esempi di gola che generò ben miseri guadagni. Poi, scostatici dalla parete e tornati a camminare lungo la strada solitaria, percorremmo più di un miglio, ciascuno assorto nei suoi pensieri. All’improvviso una voce ci disse: «Che andate pensando, voi tre soli?» allora io mi ridestai come fanno le bestie spaventate e pigre. Alzai la testa per vedere chi fosse e mai non si videro in una fornace vetri o metalli così lucenti e incandescenti, come io vidi quello che diceva: «Se a voi piace salire più sopra, qui si conviene voltare: da qui passa chi vuole andare a trovare la pace». Il suo aspetto mi aveva accecato; così mi girai indietro verso le mie guide come un uomo che va seguendo solo la voce. E come, annunciatrice dell’alba, l’aria di maggio si muove e profuma, tutta impregnata del profumo dei fiori e dell’erba; così mi sentii un vento soffiare nel mezzo della fronte e sentii bene muovere la piuma che profumò l’aria di ambrosia». E sentii dire: «Beati quelli a cui illumina così tanto la grazia che l’amore della gola non esala nel loro petto troppo profumo, affamati sempre di quel che è giusto».

4Sintesi e spiegazione del canto XXIV del Purgatorio

Canto 24 del Purgatorio di Dante che si trova con Virgilio nel girone dei golosi. Stampa di Gustavo Doré.
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vv. 1-33. Dante prosegue il suo cammino insieme a Forese Donati, a passo svelto. L’amico di Dante racconta che sua sorella Piccarda già è beata nel Cielo (sarà infatti la prima anima incontrata da Dante in Paradiso). Poi, avendo precisato che non c’è alcun divieto nell’indicare le anime penitenti, indica a Dante Bonagiunta da Lucca e papa Martino IV. Forese indica molte anime, ma Dante annota solo Ubaldino della Pila, Bonifazio Fieschi e Marchese degli Argugliosi. 

vv. 34-63. Dante nota che Bonagiunta si mostra assai desideroso di parlargli e mormora intanto la parola «Gentucca». Dante ne chiede il motivo e Bonagiunta risponde che un giorno una giovane donna gli farà piacere Lucca, nonostante della città si dica un gran male. Nasce poi un acceso discorso sulla poesia e Dante definisce il suo modo di poetare: il poeta lucchese afferma che adesso comprende alla perfezione la differenza tra i nuovi e i vecchi poeti. Detto ciò, si tace.

vv. 64-81. Bonagiunta e gli altri spiriti rimasti attorno a Dante riprendono velocemente il cammino. Forse rimane con Dante e gli chiede quando lo rivedrà. Il poeta non conosce la risposta ma ammette che lascerà volentieri e presto Firenze perché non sopporta più il clima di corruzione che lì si respira.

vv. 82-93. Segue la profezia della drammatica fine del fratello di Forese, Corso Donati, capo della fazione dei Guelfi neri.  

Dante e Virgilio
Fonte: ansa

vv. 94-120. Terminato il suo discorso, Forese si ricongiunge velocemente ai suoi compagni. I tre poeti (Dante, Virgilio e Stazio) proseguono il loro cammino e giungono a un altro albero, sotto il quale una turba di spiriti tende inutilmente le mani cercando di cogliere i profumati frutti che pendono dai rami. Delusi se ne vanno. Una voce esce dalle fronde. Quell’albero è nato da quello del paradiso: è il famoso albero violato da Eva, poiché osò mangiarne il frutto. 

vv. 121-129. La voce che ha ammonito i tre poeti prosegue il suo discorso e ricorda due esempi di golosità punita: il primo è quello dei centauri ubriachi alle nozze di Piritoo, il secondo esempio è invece quello degli ebrei che non seppero resistere alla sete e furono esclusi dalla gloria di aver vinto i nemici.

vv. 130-154. I tre poeti riprendono il cammino e, superati i mille passi, giungono dove sta l’angelo della temperanza. L’angelo li invita a salire e il suo volto è abbagliante, al punto che Dante non può sostenerne la luce. Cantando una delle beatitudini, l’angelo cancella una delle “P” dalla fronte di Dante.

Personaggi: Dante, Stazio, Virgilio, Forese Donati, Bonaggiunta Orbicciani.

Personaggi indicati o nominati: Piccarda Donati, Bonifazio Fieschi, Marchese degli Argugliosi, Corso Donati, Gentucca (?).

5Analisi del canto XXIV del Purgatorio

Il canto XXIV conclude il colloquio con Forese Donati, avviato nel canto precedente e conclude anche il passaggio attraverso la cornice dei golosi. Il XXIV canto è però anche noto per essere il certificato di nascita del Dolce Stil Novo a seguito del famoso dialogo tra il poeta Bonagiunta Orbicciani e Dante, che dichiara apertamente la sua poetica e l’ispirazione amorosa della sua poesia. È quindi un canto affascinante e politematico e, naturalmente, molto complesso.

La sutura tra i due canti è segnata dal «lui» del v. 1, cioè Forese, che assume per questo canto il ruolo di guida del poeta e va a indicare le anime notevoli di quella cornice. Sono comunque due i punti focali attorno a cui ruota il canto che si dividono in due parti. Infatti il discorso di Forese e Dante su Piccarda Donati viene interrotto dall’episodio di Bonagiunta, il quale prima fa una profezia per Dante e in secondo luogo si sofferma sullo Stil Novo e il nodo che gli impedì di percorrere la nuova poesia. Terminato l’episodio, c’è anche la profezia di Forese Donati.

Segue poi la conclusione del canto in due momenti: l’albero a cui i golosi tendono e l’incontro con l’angelo che suggella la fine della cornice e il passaggio alla successiva.

6Bonagiunta Orbicciani: la profezia di Gentucca e il discorso sul Dolce Stil Novo

Che nome strano, Gentucca… infatti quasi tutti gli antichi commentatori pensavano che questo nome citato al v. 37 non avesse niente a che fare con la donna del v. 43. Credevano che si riferisse ai golosi come «gente da poco», «gentuccia» (Lana e Anonimo fiorentino) oppure ai nemici politici di Dante (Ottimo). I commentatori moderni hanno scelto diverse vie: Torraca pensa che la lezione corretta sia da leggere come «gente ucca», cioè la gente rimprovera (dal provenzale uchar). Buti, tuttavia, ebbe per primo l’idea che questa parola fosse un nome proprio e si collegasse alla profezia dei vv. 43-48. Il problema è però l’identificazione. L’ipotesi più accreditata al momento la vuole Gentucca di Ciucchino Morla, sposata a Buonaccorso Fondora. È importante però che Dante sottolinei il prezioso rapporto con questa città nei primi anni dell’esilio.

Per quanto riguarda il discorso sul Dolce Stil novo, Vale la pena precisare che la tradizione codicologica non è molto univoca sulla lezione chiodo ch’i’odo, con evidenti differenze semantiche: «chiodo» e «che io odo», che io ascolto. L’aggettivo «novo» detto da Bonagiunta sarebbe quindi riferibile anche a chiodo, mentre «dolce» a stile. L’espressione sottesa di Bonagiunta è che il nuovo chiodo scaccia il vecchio ed è un’espressione particolarmente usata proprio in amore e quindi per estensione si può ben applicare alla poesia amorosa.

Al di là della questione filologica, tutt’altro che pacifica, Dante esprime la novità della sua poesia attraverso quanto detto dal suo collega più anziano: «I’ mi don un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’è ditta dentro vo significando» (vv. 52-54). È quasi un moto di modestia da parte di Dante che afferma di essere un bravo copista di quanto Amore gli detta. Bonagiunta conferma e approva questa definizione di Dante e sottolinea che adesso vede bene il nodo che aveva trattenuto lui, il notaro (Jacopo da Lentini) e Guittone d’Arezzo al di qua del dolce stile dei poeti della generazione di Dante.

La differenza è nella visione religiosa della donna che le aveva dato un significato ultraterreno e tramite – per la sua bellezza e la sua onestà – tra Dio e l’Uomo. L’episodio funge da pausa all’interno del lungo dialogo tra Forese e Dante che termina con la rovinosa caduta di Corso nell’Inferno. 

7La profezia della morte di Corso Donati

Forese profetizza la fine drammatica di suo fratello Corso, legato alla coda di un cavallo e così trascinato all’inferno (vv. 82-87). È un’immagine atroce che ben giustifica l’odio di Dante verso Corso, ritenuto dal poeta il responsabile principale della corruzione morale e politica di Firenze, ma anche, e soprattutto, del suo esilio in quanto Corso era capo della fazione dei Guelfi Neri (presero il potere nel 1301 grazie a Carlo di Valois). 

Dante non dà quindi al suo nemico politico una morte qualsiasi, ma quella che, secondo gli statuti dell’epoca, era destinata ai traditori e agli omicidi. Ma ci sono anche tante leggende popolari che vedono insieme il cavallo e il condannato a morte, oltre alla potenza profetica di questo animale nell’Apocalisse. Il corpo di Corso viene sfigurato, disfatto, dileggiato perché è traditore della sua città e non merita infatti di essere nominato perché egli è soltanto il maggior colpevole e la sua memoria dovrà sparire. 

8Analisi dei Personaggi del canto XXIV del Purgatorio

8.1Bonaggiunta Orbicciani degli Overardi (o Bonagiunta; anche B. da Lucca)

E’ stato un rimatore lucchese al modo dei siciliani. Svolse la professione di giudice e notaro (notaio) in documenti che vanno dal 1242 al 1257. Difficile dire quando sia nato, visto che riconosce Dante a prima vista e conosce la canzone “Donne ch’avete intelletto d’amore”.

Secondo Contini ebbe un ruolo importante nel trapianto degli stilemi della poetica siciliana in Toscana. Infatti fiorì intorno a lui una piccola scuola poetica strettamente legata ai Siciliani e provò anche ad imitare il nuovo stile che allora veniva elaborato da Dante e compagni. Dante lo giudicò severamente nel De vulgari eloquentia (I 13, 1), per via della sua lingua municipale (stessa critica rivolta a Guittone d’Arezzo) e lo introduce nel canto XXIV del Purgatorio come rappresentante della generazione di poeti anteriore alla sua, e fa che egli riconosca la novità e la superiorità dello stil novo rispetto alla poesia dei Siciliani, di Guittone e sua.

8.2Forese Donati

L'incontro tra Dante e Forese Donati nel Canto XXIII del Purgatorio
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Forese Donati (soprannominato Bicci novello per distinguerlo dal nonno paterno che portava lo stesso nome e forse anche lo stesso soprannome), era figlio di Simone di Forese e di Contessa, detta "Tessa", di cui si ignora la provenienza familiare. Ebbe come fratelli Corso Donati, capo dei guelfi neri a Firenze, Piccarda, che Dante Alighieri collocò nel Cielo della Luna. Era inoltre imparentato con Dante Alighieri, in quanto cugino di terzo grado di Gemma Donati, moglie di Dante. Celebre è la tenzone poetica in stile comico tra Dante e Forese che è tuttora croce e delizia della filologia dantesca.

8.3Corso Donati

Rapimento di Piccarda Donati, olio su tela di Toncini
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Corso era fratello di Forese e di Piccarda Donati, capo della parte nera e per Dante maggior responsabile delle discordie interne di Firenze. Era nato intorno al 1250 e fece rapire la sorella Piccarda dal chiostro per darla in moglie a Rossellino della Tosa. Ebbe una carriera politica segnata dall’aggressività e dalla turbolenza: era stato capitano del popolo a Bologna, Padova, Pistoia, Parma, ma a Firenze creava sempre molti disordini anche nella sua stessa parte. Fu uno dei condottieri i Campaldino e attaccò gli aretini senza aver ricevuto ordine. Guido Cavalcanti tentò di ucciderlo sulla pubblica piazza nel 1296 e neanche a seguito di altri incarichi si staccò del tutto dalla politica fiorentina. Finché nel 1301 fece il suo ritorno a Firenze grazie a Carlo di Valois. Corso si vendicò di tutti i suoi nemici politici e divenne il padrone effettivo della città. Tuttavia cadde in disgrazia quando cercò di barcamenarsi in continue alleanze politiche. 

Fu accusato di tradimento e tentò la fuga per evitare il patibolo; fu però raggiunto dai sicari e, pare, si lasciò cadere da cavallo per trovare una morte rapida (ed evitare torture e agonie terribili). Oppure, secondo un’altra tradizione, nella fuga, cadendo da cavallo, rimase impigliato al cavallo e fu trascinato per un bel pezzo. Quale delle due morti sia quella vera, non si sa. Tuttavia è evidente il ruolo della cavalcatura e della morte vicino alle mura (dove venivano giustiziati i traditori). Dunque è probabile, molto probabile, che si sia trattata di una vera e propria esecuzione e non di un incidente. 

9I personaggi nominati appartenenti alla cornice dei golosi

Martino IV (Simon de Brion, circa 1210-1285), papa dal 1281 al 1285
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Simone de Brie fu papa dal 1281 al 1285 con il nome di Martino IV, successore di Niccolò III. Anche se nato a Montpincé (nella regione francese della Brie) fu nominato da Tours (dal Torso, nel testo) perché svolse lì il ruolo di tesoriere. Fu giudicato un buon papa nella cronache del Villani e molto celebre fu la sua golosità che generò una vasta aneddotica e molte facezie. Pare fosse goloso delle anguille in particolare al punto che alla sua morte venne composto anche un epitaffio scherzoso: “Gaudent anguillae quia mortuus iacet ille / qui quasi morte reas excoriabat eas”. Cioè: “Gioiscano le anguille perché qui giace morto colui che le faceva scorticare quasi fossero colpevoli di delitto capitale”.

Ubaldino da la Pila o Ubaldino degli Ubaldini apparteneva a una famiglia molto potente che riceveva il nome dal castello della Pila al Mugello (in Toscana). Era fratello del cardinale Ottaviano e di Ugolino d’Azzo. Ma soprattutto vale la pena precisare che è il padre del famoso Arcivescovo Ruggieri, traditore del Conte Ugolino.

Bonifazio Fieschi dei conti di Lavagna fu arcivescovo di Ravenna dal 1274 al 1295. Dall’aneddotica su di lui si ricava l’immagine di una persona gaudente e liberale.

Marchesino degli Argugliosi di Forlì, di famiglia importante, fu podestà di Faenza nel 1296. Pare fosse un grande bevitore e per questo si trova qui tra i golosi.

10Guarda il video sul canto 24 del Purgatorio