Canto XV del Paradiso: testo, parafrasi, commento e figure retoriche
Indice
1Canto XV del Paradiso: trama e struttura
Nel Cielo di Marte, che accoglie le anime degli spiriti combattenti, viene introdotta la figura di Cacciaguida, nobile antenato di Dante e protagonista di questo Canto e dei due successivi, che insieme costituiscono uno dei nuclei centrali non solo della terza Cantica, ma dell'intero poema.
La narrazione si apre con la fine del canto delle anime beate che occupano il Cielo di Marte. Dal braccio destro della croce di questo cielo si muove una luce che, come una stella cadente, scende giù fino alla base: è un'anima beata che, appena avvicinatasi al poeta, gli si rivolge in latino chiamandolo “sanguis meus” quasi come se Anchise si rivolgesse ad Enea. Dante guarda prima l'anima beata e poi Beatrice, che gli sorride di rimando e rimane doppiamente stupito, sia per le parole di quello spirito che per il sorriso della donna.
L'anima appena arrivata ricomincia a parlare, ma dice cose tanto profonde che il poeta non riesce a capirle, perché vanno aldilà dell'intelletto umano; poi si ferma e, quando riprende a parlare, diventa finalmente comprensibile. Benedice Dio per la grazia concessa alla sua progenie e poi, parlando direttamente con Dante, che attendeva da lungo tempo il suo arrivo. Il poeta gli risponde dicendo che sa perfettamente che l'anima beata può leggere i suoi pensieri nella mente di Dio, e perciò gli sembra superfluo fare alcuna domanda: l'anima conferma quanto appena detto dal suo interlocutore, ma gli dice di procedere pure con le domande, così che il suo ardore di carità si manifesti appieno.
Comincia così la domanda del poeta, che chiede inizialmente comprensione allo spirito che ha di fronte: la beatitudine, infatti, rende uguale il sentimento e l'intelletto, ma per gli uomini viventi, che ancora sono imperfetti, non è così; quindi lo ringrazia per l'accoglienza riservatagli e infine gli chiede di presentarsi. Lo spirito, pur non pronunciando ancora il proprio nome, dice di essere un suo antenato, e più precisamente il padre di quell'Alighiero I che diede il nome al suo casato e che, da più di cento anni, sta scontando i propri peccati nel Purgatorio.
Inizia così la parte principale del Canto. L'anima che ha accolto così calorosamente Dante e che ora gli sta parlando è quella di un fiorentino antenato di Dante, che ora inizia a parlare della Firenze dei suoi tempi ricordandone l'umiltà e i costumi morigerati, una Firenze in cui i vizi non erano ancora diffusi e che ancora non si arrogava di rivaleggiare con Roma in gloria e ricchezza; ricorda l'antica frugalità delle famiglie fiorentine che ora, invece, ostentano un lusso eccessivo fino quasi alla follia, e in cui le donne non si curano più di crescere i figli, mentre i loro mariti curano i commerci nella lontana Francia.
Egli stesso era nato in quella città così dignitosa ed in essa battezzato con il nome di Cacciaguida. Ebbe due fratelli e sposò una donna della Valpadana il cui cognome, Alighieri, è quello che ancora porta lo stesso poeta. Cacciaguida seguì Corrado III nella seconda Crociata per liberare la Terrasanta e, per la sua rettitudine, l'Imperatore volle nominarlo cavaliere. Morì in battaglia, e la sua anima beata salì in Paradiso.
Il Canto può essere quindi suddiviso in cinque parti:
- Vv. 1-30: Fine del canto degli spiriti combattenti ed apparizione di Cacciaguida.
- Vv. 31-69: Dialogo tra Dante e Cacciaguida, che invita il poeta a parlare e a fare domande.
- Vv. 70-96: Dante chiede all'anima beata di presentarsi, Cacciaguida esaudisce la sua richiesta ma senza dire il suo nome.
- Vv. 97-129: L'anima beata ricorda la compostezza e la rettitudine della Firenze antica.
- Vv. 130-148: Cacciaguida infine dice il suo nome e racconta della sua vita.
2Dante, Cacciaguida e il passato e il futuro di Firenze
Il Canto XV, come i due seguenti, ruota attorno alla solenne figura di Cacciaguida, antenato di Dante che comincia una riflessione sulla situazione passata, presente e futura di Firenze con una serie di rimandi, significati multipli e giochi di specchi che danno al Canto una profondità che non è facilmente accessibile.
Per comprendere tutti questi aspetti si deve ricordare che questo Canto, come del resto tutta la Commedia, ha in sé due caratteristiche fondamentali: la prima è che Dante mira più ad evidenziare la dimensione morale delle vicende scritte che alla loro realtà storica, ne è un esempio il fatto che l'identità di Cacciaguida si riveli solo nelle ultime battute del Canto (vv. 130-148), e che il racconto della sua vita si condensi, oltre che sulla sua genuina fiorentinità, sulla sua morte in battaglia durante la Crociata al seguito dell'Imperatore, che lo rende meritevole della beatitudine eterna e lo proietta nell'Empireo.
L'altra caratteristica da tenere a mente è il doppio ruolo di Dante, autore e protagonista del suo stesso racconto, artefice di una narrazione che, mai come in questi tre canti, andrà a sviluppare un discorso edificante che, esaltando i meriti e la rettitudine dell'antenato, evidenziano le virtù del poeta stesso.
Si tratta di due caratteristiche che danno l’ossatura di tutto il discorso politico e morale impostato dal poeta fiorentino. Dante elegge come suo antenato prediletto l’eroico Cacciaguida, cresciuto in una Firenze retta e frugale e morto in battaglia al seguito dell’imperatore, e non il padre Alighiero che, essendo un mercante, apparteneva ad un ceto sociale malvisto dal poeta. Cacciaguida si presenta parlando latino e chiamando Dante ‘sanguis meus ’ (vv. 28-30) ed il poeta lo paragona ad Anchise che si rivolge al figlio Enea e poi, cominciando il suo discorso si presenta come ‘radice’ del suo interlocutore (v. 89).
Cacciaguida nasce e vive in una Firenze in cui le ricche e tenute famiglie del tempo di Dante vivevano in maniera frugale: Dante ci descrive focolai familiari con donne per nulla interessate a truccarsi per soddisfare la loro vanità, ma intente a crescere i figli narrandogli storie edificanti del passato (vv. 112-126); i padri, dal canto loro, vestivano in maniera semplice e non abbandonavano le famiglie per andare fino in Francia a commerciare.
Firenze, agli occhi di Cacciaguida, vuole gareggiare con la Roma antica per grandiosità e sfarzo, ma è destinata ad una peggiore decadenza. Il confronto con la Roma antica avvia anche un parallelismo tra le virtù morali dei personaggi della Roma repubblicana, incarnati da Cincinnato e Cornelia (v. 129), e la degradazione dei moderni fiorentini come Cianghella e Lapo Salterello.
Anche qui non ci si trova di fronte ad un discorso puramente moralistico, perché apre ad una riflessione di natura autobiografica: la vecchia Firenze, quella onesta ed eroica dei tempi di Cacciaguida, non esiste più ed è stata sostituita da una nuova città, ricca, dissoluta e immorale in cui un uomo retto come Dante, va da sé, non può trovar posto: il viaggio della Commedia si svolge nel 1300, cioè due anni prima del definitivo esilio di Dante che quindi, al momento dell’azione, non conosce il suo destino, e sarà lo stesso Cacciaguida, nei canti successivi a profetizzarlo.
3Il Canto XV del Paradiso: testo e parafrasi
Testo
Benigna volontade in che si liqua
sempre l’amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua,
silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira.
Come saranno a’ giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
ch’io le pregassi, a tacer fur concorde?
Bene è che sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri
etternalmente, quello amor si spoglia.
Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’ e’ s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:
tale dal corno che ’n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;
né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.
Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s’accorse.
«O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa?».
Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.
Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo;
né per elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché ’l suo concetto
al segno d’i mortal si soprapuose.
E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che ’l parlar discese
inver’ lo segno del nostro intelletto,
la prima cosa che per me s’intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
che nel mio seme se’ tanto cortese!».
E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
du’ non si muta mai bianco né bruno,
solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
in ch’io ti parlo, mercé di colei
ch’a l’alto volo ti vestì le piume.
Tu credi che a me tuo pensier mei
da quel ch’è primo, così come raia
da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei;
e però ch’io mi sia e perch’ io paia
più gaudïoso a te, non mi domandi,
che alcun altro in questa turba gaia.
Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi;
ma perché ’l sacro amore in che io veglio
con perpetüa vista e che m’asseta
di dolce disïar, s’adempia meglio,
la voce tua sicura, balda e lieta
suoni la volontà, suoni ’l disio,
a che la mia risposta è già decreta!».
Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno
che fece crescer l’ali al voler mio.
Poi cominciai così: «L’affetto e ’l senno,
come la prima equalità v’apparse,
d’un peso per ciascun di voi si fenno,
però che ’l sol che v’allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse.
Ma voglia e argomento ne’ mortali,
per la cagion ch’a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali;
ond’ io, che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa.
Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia prezïosa ingemmi,
perché mi facci del tuo nome sazio».
«O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice»:
cotal principio, rispondendo, femmi.
Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent’ anni e piùe
girato ha ’l monte in la prima cornice,
mio figlio fu e tuo bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica
tu li raccorci con l’opere tue.
Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond’ ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.
Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.
Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura.
Non avea case di famiglia vòte;
non v’era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che ’n camera si puote.
Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo.
Bellincion Berti vid’ io andar cinto
di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza ’l viso dipinto;
e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
e le sue donne al fuso e al pennecchio.
Oh fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta.
L’una vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l’idïoma
che prima i padri e le madri trastulla;
l’altra, traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.
Saria tenuta allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
qual or saria Cincinnato e Corniglia.
A così riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello,
Maria mi diè, chiamata in alte grida;
e ne l’antico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida.
Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo.
Poi seguitai lo ’mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado.
Dietro li andai incontro a la nequizia
di quella legge il cui popolo usurpa,
per colpa d’i pastor, vostra giustizia.
Quivi fu’ io da quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt’ anime deturpa;
e venni dal martiro a questa pace».
Parafrasi
sempre quell'amore che ispira giustamente,
come la cupidità la fa ingiusta,
fece tacere quel dolce strumento,
e riposare quelle sante corde
suonate dalla mano del cielo.
Come possono esser sorde alle preghiere dei giusti
queste anime che, per spingermi
a pregarle, tacquero tutte insieme?
È bene che soffra senza tregua
chi, per inseguire cose che non durano
eternamente, rifiuta l'amor divino.
Come i cieli notturni e tersi
sono di tanto in tanto attraversati da luci improvvise,
attirando lo sguardo che prima era fermo,
e sembra che una stella cambi posto,
ma in quella parte in cui prende fuoco
nessun astro scompare, e la fiamma è rapida:
così dal braccio destro che si tende
fino alla base di quella croce scese una stella
dalla costellazione che in quel cielo splende;
e la gemma non si separò dal suo nastro,
ma per tutto il suo raggio la percorse,
come una fiamma dietro l'alabastro.
Come l'anima di Anchise si mostrò pietosa,
se si vuol dar fede al nostro più grande poeta,
quando s'accorse della presenza di Enea nei Campi Elisi.
«O sangue mio, o abbondante
grazia di Dio, a chi altri come te
per due volte viene aperta la porta del cielo?»
Così fece quell'anima, quando mi avvicinai a lei;
poi mi rivolsi a Beatrice,
e da una parte e dall'altra fui stupito;
perché nei suoi occhi ardeva una letizia
tale, che io pensai di toccare con i miei il massimo
della mia gioia e del mio paradiso.
Quindi, bello da ascoltare e vedere,
l'anima aggiunse al suo discorso delle cose,
che io non capii, tanto erano profonde;
non me le nascose per scelta,
ma per necessità, poiché il suo discorso
oltrepassava quanto umanamente comprensibile.
E quando l'arco di quell'ardore di carità
si fu sfogato, al punto che il suo parlare si abbassò
fino al livello dell'intelletto umano,
la prima cosa che compresi fu,
«Che tu sia benedetto, uno e trino,
che nella mia discendenza sei stato così generoso!».
E continuò: «Un gradito e atteso desiderio,
derivato dalla lettura del grande volume
in cui tutto è fisso,
hai esaudito, figlio mio, in questa luce
dal quale io ti parlo, grazie a colei
che ti diede le ali per questo volo.
Tu credi che i tuoi pensieri mi arrivino
da quello divino, così come s'irradi
dall'uno, se lo si conosce, il cinque e il sei;
e perciò non mi chiedi chi io sia e
perché sembri più felice di vederti,
di qualunque altra tra queste anime felici.
Ciò che credi è vero; sia le meno che le più
elevate tra le anime beate guardano in quello specchio
per cui, prima che tu lo pensi, manifesti il tuo pensiero;
ma per far si che l'amore di carità che io guardo
in perpetua contemplazione e che mi asseta
di dolce desiderio, si compia meglio,
con la tua voce sicura, ardita e lieta
esprima ciò che vuole e desidera,
perché a ciò la mia risposta è già pronta!».
Guardai Beatrice, e lei mi udì
prima che io parlassi, e mi annuì con un sorriso
che fece volare il mio desiderio.
Così cominciai a parlare:« Il sentimento e la ragione,
appena vi apparve l'uguaglianza perfetta,
sono per voi divenute la stessa cosa,
poiché il sole che vi illuminò e scaldò,
ha una sapienza e un amore tanto simili,
che tutte le altre somiglianze sono inesatte.
Ma la ragione e il sentimento nei mortali,
per ragioni che a voialtri sono ovvie,
hanno ali che non si assomigliano.
E io, che sono mortale, soffro di
questa disuguaglianza, perciò posso ringraziare
solo con i sentimenti a questa festa paterna.
Ora ti supplico, vivo topazio
che sei gemma di questa croce,
di dirmi il tuo nome».
«Oh, mia discendenza di cui mi compiaccio
solo per l'attesa, io fui un tuo antenato»:
la sua risposta cominciò così.
Poi mi disse: «Colui dal quale
prendi il tuo nome e che da più di cent'anni
gira per la prima cornice del Purgatorio,
fu mio figlio e tuo bisnonno:
sarebbe doveroso che quella penitenza
tu gliela accorci con le tue preghiere.
Firenze nelle sue antiche mura,
da cui ancora sente suonare l'ora terza e la nona
stava in pace, sobria e pudica.
Non indossava collane o corone,
non gonne ricamate, né cinture
che all'occhio fossero più appariscenti della persona.
Ancora, quando nasceva, non faceva
paura la figlia al padre, poiché l'età e la dote
del matrimonio non erano spropositate.
Non c'erano case con poche famiglie;
ancora non era arrivato Sardanapalo
a mostrare ciò che si può fare in camera da letto.
Ancora non era stato battuto Montemario
dal vostro Uccellatoio, che così com'è vinto
nella fortuna, così lo sarà nella rovina.
Vidi Bellincione Berti portare una cinta
di cuoio e d'osso, e sua moglie
allontanarsi dallo specchio senza trucco;
e vidi membri della famiglia Nerli e dei Vecchietti
accontentarsi di vesti di pelle semplice,
e le loro donne cucire la lana.
Donne fortunate! Ciascuna sicura
d'esser sepolta nella sua città, e ancora nessuna
era stata abbandonata per i commerci in Francia.
Una vegliava con cura sulla culla,
consolando il bimbo con quell'idioma infantile
che per primi diverte i padri e le madri;
l'altra, lavorando al telaio,
raccontava alla sua famiglia le storie
dei Troiani, di Fiesole e di Roma.
Sarebbe al tempo risultato uno scandalo
una Cianghella, un Lapo Salterello,
come ora lo sarebbero un Cincinnato o una Cornelia.
In un così pacifica, così civile
vita cittadina, in una così concorde
cittadinanza, in una così dolce dimora,
mi fece nascere Maria, gridando ad alta voce;
e nel vostro antico Battistero
fui allo stesso tempo cristiano e Cacciaguida.
Moronto ed Eliseo furono miei fratelli;
mia moglie venne dalla Val Padana,
e il suo cognome divenne il tuo.
Poi seguii l’imperator Corrado;
che mi fece uno dei suoi cavalieri,
tanto gli piacque il mio operare.
Lo seguii per combattere l’ingiustizia
di quella legge osservata da quella gente che usurpa,
per colpa dei papi, ciò che è vostro di diritto.
E lì io, da quel popolo infedele,
fui liberato dal mondo materiale,
l’amore per cui travia molte anime;
e dal martirio venni a questo luogo di pace».
4Il Canto XV del Paradiso: figure retoriche
- V. 1, liqua: latinismo dal verbo liquere, cioè 'sciogliere'.
- Vv. 3-6, silenzio … tira: metafora in cui il coro delle anime viene paragonato al suono di una lira di cui le singole anime beate costituiscono le corde.
- Vv. 22-24, né si partì … alabastro: metafora in cui l'apparizione dell'anima beata viene paragonata alla discesa di una stella lungo i bracci della croce.
- V. 26, nostra maggior musa: perifrasi per intendere Virgilio.
- Vv. 28-30, O sanguinis … reclusa: qui Dante non cita l'Eneide, ma scrive direttamente in latino.
- V. 35, la mia gloria … paradiso: si tratti di un'endiadi che esalta la situazione emotiva del poeta.
- V. 47, uno e trino: perifrasi per indicare Dio.
- V. 50, megno volume: perifrasi per indicare la mente di Dio.
- Vv. 53-54, mercé … piume: perifrasi per indicare Beatrice.
- V. 56, quel ch'è primo: perifrasi per indicare Dio.
- V. 62, speglio: perifrasi per indicare Dio.
- V. 63, pandi: latinismo dal verbo latino pandere, cioè 'spiegare'.
- V. 74, prima equalità: perifrasi per indicare Dio.
- V. 86, gioia preziosa: perifrasi per intendere la Croce del cielo di Marte.
- Vv. 91-93, Quel da… prima cornice: perifrasi per indicare Alighiero I che si trova nella prima cornice del Purgatorio.
- V. 107, Sardanapalo: cioè il re assiro Assurbanipal (VII sec. a.C.) che viene dipinto come uomo lussurioso e lascivo che qui diventa, per metonimia, significato stesso di lussuria.
- Vv. 109-110, Montemalo e Uccellatoio: sono due luoghi che si trovano, rispettivamente, all'ingresso nord di Roma e di Firenze. Per sineddoche stanno qui a significare le due città.
- V. 121, a studio: latinismo dalla parola studium, cura.
- Vv. 128-129, una Cianghella … Corniglia: la coppia formata da Cianghella e Lapo Salterello viene contrapposta a quella formata da Cincinnato e Cornelia: i quattro soggetti citati diventano per metonimia simboli di dissoluzione morale, i primi due, e di buoni costumi i secondi.
- V. 140, milizia: latinismo formato però non su un calco dal latino classico ma dal latino medievale, in cui miles significa cavaliere.
- V. 144, de’ pastor: perifrasi per intendere i papi.