Canto notturno di un pastore errante dell’Asia | Video
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, video: analisi e spiegazione del componimento in cui Leopardi esprime il suo pessimismo rassegnato
CANTO NOTTURNO DI LEOPARDI
"Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai / silenziosa luna?"
Li hai riconosciuti? Sono i primi due versi del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Prima che lo dica tu, lo anticipiamo noi: sì, quella di Giacomo Leopardi in questo monologo è una visione super pessimistica, ma c’è una ragione.
Perché mai Leopardi dovrebbe dedicare una poesia a un pastore asiatico? Beh, ti assicuriamo che il nostro poeta non era affatto impazzito: era solo rimasto incredibilmente affascinato da un resoconto di viaggio in Oriente. Questo testo raccontava la consuetudine dei pastori nomadi Kirghisi di passare la notte seduti su una pietra a guardare la luna e a improvvisare canti. C’è qualcosa di più romantico per un intellettuale con la passione per la luna, come il nostro Leopardi?
Dicevamo, Leopardi legge il resoconto e ne resta colpito: in questo periodo riflette spesso sulla saggezza pura dei primitivi, contrapposta a quella corrotta dei moderni. Lo colpisce soprattutto il fatto che questi pastori rivolgano canti alla luna: ancora una volta il genere lirico sovrasta tutti gli altri. Solo attraverso il canto l’uomo è in grado di manifestare i sentimenti e trovare consolazione.
CANTO NOTTURNO DI LEOPARDI: SEQUENZE
Il Canto notturno è una canzone libera di 143 versi suddivisi in 6 stanze. Ha la forma di un’allocuzione lirica rivolta alla luna dal suo autore, un pastore nomade. Il fatto che provenga dall’Asia, più che a localizzarlo, ci serve a vederlo come un uomo che possiede una saggezza primitiva: è un pastore-filosofo, che si pone domande sul senso della vita.
- Nella prima strofa il pastore si rivolge direttamente alla luna e le chiede che senso abbia il suo moto perpetuo, così simile alla propria vita quotidiana. La luna è l’emblema della Natura, cui Leopardi non smette di rivolgersi.
- Nella seconda strofa la vita umana è equiparata al cammino faticoso di un vecchio infermo, perseguitato dalle avversità del clima.
- Nella terza interviene un’altra figura: un neonato, che ha bisogno di essere consolato già alla nascita e nel corso di tutta la sua vita. Forse è allora meglio non nascere affatto?
- Nella quarta strofa il pastore si chiede quale sia il senso della vita e della morte. La riflessione è amara: la vita è principalmente dolore.
- Nella quinta strofa c’è un nuovo paragone fra l’uomo e il gregge: se quest’ultimo riesce a riposarsi perché non ha memoria del dolore e della noia, così non è per l’uomo.
- Nell’ultima strofa Leopardi dice che, se sapesse volare come un uccello o vagare fra le sommità dei monti, l’uomo potrebbe essere felice. Ma nei fatti è condannato all’infelicità.
Ok, ti avevamo annunciato che questo componimento non sarebbe stato allegro. Ma ecco la motivazione: dal 1824 Leopardi è entrato nella fase del cosiddetto pessimismo cosmico, secondo cui la vita umana è fatta di dolore e mancanza di senso: colpa della natura matrigna, che mette al mondo gli uomini senza preoccuparsi delle loro sorti.
Quello che troviamo qui però è un pessimismo più rassegnato: rispetto ad altri componimenti, qui Leopardi improvvisa una sorta di cantilena, come a riprodurre quel canto primitivo di cui parlavamo: pensa all’uso delle finali in –ale che ricorrono nel testo: immortale, tale, mortale, cale, frale, animale, assale, natale.
La cosa che più colpisce di questa poesia, oltre all’ambientazione esotica, è il ricorso a termini vaghi e indefiniti, e all’uso di un io lirico che non è più quello del poeta, ma di un uomo vicino alla natura. Eppure, neanche questa condizione primitiva salva l’uomo dall’infelicità: nel suo dolore, anche lui è molto moderno. Qui la natura non appare del tutto nemica degli uomini: piuttosto, è una compagna del suo dolore. Anche qui, come in altre sue poesie, Leopardi umanizza la luna. Ma di nuovo, neppure stavolta ottiene risposta.