Canto IV del Paradiso di Dante: testo, parafrasi, commento e figure retoriche
Indice
1Canto IV del Paradiso: sintesi e struttura
Il Canto, dalla collocazione assolutamente eterea, si connota per il tono fortemente dottrinario. Beatrice, che rappresenta metaforicamente la Teologia, risponde alle domande e ai dubbi nati nel poeta in seguito all’incontro con Piccarda Donati e Costanza D’Altavilla (cfr. Par. III), su temi di carattere strettamente filosofico che erano già stati affrontati, ma solo in parte, nel Canto precedente: in questo senso non sono casuali i riferimenti al Timeo platonico o le allusioni evidenti alla filosofia tomistica.
Il Canto si apre con una serie di similitudini (vv. 1-6) che descrivono l’animo di Dante, combattuto in egual modo tra due dubbi finché Beatrice, comprendendo il suo stato d’animo decide di rispondere ai suoi dubbi, comportandosi come Daniele, profeta dell’Antico Testamento che, indovinando il significato dei sogni del re babilonese Nabucodonosor, ne placa l’ira (vv. 13-15). Allo stesso modo, la donna indovina quali siano i dubbi che attanagliano il poeta senza che egli li esprima in maniera esplicita: il primo riguarda l’azione della giustizia divina nei confronti di quelle anime difettive che mancarono ai loro voti per colpa della violenza altrui, il secondo invece concerne la disposizione delle anime nel Paradiso, che Dante s’immagina nel modo descritto da Platone.
Tra i due dubbi, quello dogmaticamente più importante, e quindi più urgente da sciogliere è però il secondo. Beatrice spiega a Dante che l’angelo (v. 28: Serafin) più vicino a Dio, Mosè, la Vergine e le anime più sante, hanno tutte posto nell’Empireo, cioè il cielo di Dio, insieme alle anime degli spiriti difettivi, e sono destinate a rimanervi in eterno, anche se la beatitudine di cui godono ha un’intensità minore di quella degli spiriti più santi.
Gli spiriti difettivi si sono manifestati a Dante nel cielo della Luna non perché effettivamente residenti in quel cielo, ma per rendere manifesta al viaggiatore/narratore il loro minor grado di Grazia in termini concreti: solo così è infatti possibile parlare all’intelletto umano, che apprende attraverso i sensi. Per lo stesso motivo le Sacre Scritture e la Chiesa attribuiscono a Dio e agli arcangeli attributi ed aspetto umani di cui sono effettivamente privi, per poter essere così compresi da un’intelligenza limitata al solo piano sensistico. Inoltre, spiega Beatrice dal v.49, l’idea di assegnare un preciso cielo alle anime è figlia del pensiero platonico, ed è alla base di tanti degli errori che caratterizzarono la visione degli antichi che lo interpretarono in senso letterale, dandone così una lettura completamente sbagliata, invece che in senso metaforico, in base al quale avrebbe potuto contenere, invece, una qualche verità. È bene ricordare, ancora una volta, che in chiave allegorica Beatrice rappresenta la Teologia, cioè quella filosofia superiore alle altre perché trascende il piano puramente intellettuale per aprirsi al metafisico e al divino.
Il primo dubbio di Dante, quello meno pericoloso sul piano dottrinale, riguarda l’applicazione della giustizia divina, argomento che può essere ben compreso dall’intelletto umano. Il quesito di Dante partiva dall’incontro con le anime di Piccarda Donati e Costanza D’Altavilla, che vennero meno ai loro voti a causa della violenza che venne fatta loro ma, pur essendo vittime e non avendo colpa, godono in minor grado della beatitudine divina.
Beatrice spiega al poeta (v. 73-87) che è vero che le due donne furono oggetto di violenza, ma è anche vero che a quella violenza non reagirono come dovettero, facendosene così complici passive; perché una volontà forte non si piega, ed è simile a una fiamma sferzata dal vento che, appena può, ritorna a bruciare verso l’alto (vv. 76-78). Se avessero avuto una volontà indomabile, come quella di san Lorenzo o Muzio Scevola, sarebbero ritornate in convento non appena ne avessero avuto la possibilità, cosa che invece non fecero.
Quest’ultima spiegazione di Beatrice, però, instilla un nuovo dubbio nel poeta: se le anime beate non possono mentire, come precedentemente detto dalla sua guida, allora c’è una contraddizione tra quanto appena affermato dalla donna e quanto detto da Piccarda su Costanza D’Altavilla, cioè che in cuor suo era sempre rimasta fedele al velo monastico (cfr. Par. III, 117). Per sciogliere quest’altro dubbio viene introdotta un’altra differenziazione tra volontà assoluta e volontà relativa.
La volontà assoluta non si piega al male, mentre quella relativa lo fa per compromesso, temendo di cadere in un male maggiore se non lo fa, e qui Beatrice cita il mito di Alcmeone (v. 103) per dare esempio a Dante di quanto sta dicendo: nei casi in cui la violenza subita si mescola alla volontà l’offesa a Dio non può essere scusata. Tornando a parlare di Piccarda, Beatrice conclude che essa parlasse alludendo alla volontà assoluta, mentre Beatrice si riferiva a quella relativa, motivo per cui entrambe dicevano il vero senza entrare in contraddizione.
I dubbi di Dante sono finalmente placati, e vorrebbe esprimere adeguatamente la sua gratitudine nei confronti della sua guida divina, ma non ne è in grado. L’intelletto umano, dice il poeta, non può essere saziato se non è illuminato dalla luce della volontà divina e, una volta raggiunta, si accomoda in essa come fa un animale nella sua tana. Il desiderio di conoscenza e verità fa germogliare i dubbi e le domande, ed infatti in Dante sta sorgendo una nuova curiosità: si chiede se sia possibile compensare il voto mancato con un’opera buona. Beatrice non risponde, ma guarda il poeta con un sorriso talmente pieno d’amore che egli è costretto ad abbassare gli occhi per non rimanere abbagliato.
Il Canto si può quindi suddividere nelle seguenti cinque parti:
- Vv. 1-27: Dante è scosso da due dubbi, cui Beatrice risponde senza che lui apra bocca per esprimerli.
- Vv. 28-63: Beatrice illumina Dante sul suo secondo dubbio, più spinoso dal punto di vista teologico, e che riguarda la disposizione delle anime in Paradiso.
- Vv. 64-90: risoluzione del primo dubbio di Dante, che riguarda l’applicazione della giustizia divina.
- Vv. 91-114: nuovo dubbio di Dante in merito all’apparente contraddizione tra quanto detto da Piccarda e quanto detto da Beatrice.
- Vv. 115-142: Dante ringrazia Beatrice ma è colto da un nuovo dubbio: ella non risponde ma gli sorride con una tale luminosità che Dante è costretto ad abbassare lo sguardo.
1.1Riferimenti culturali nel Canto IV: San Lorenzo, Muzio Scevola e Alcmeone
Nella corso della sua lunga risposta alle domande ed ai dubbi teologici di Dante, Beatrice arricchisce e rafforza la sua spiegazione con degli elementi tratti dalla storia antica o dalla mitologia che, usati in funzione analogica, consentono una comprensione immediata del discorso filosofico. I primi riferimenti che incontriamo sono a san Lorenzo e a Muzio Scevola, rispettivamente citati ai vv. 83-84, come esempi di volontà forte ed incrollabile messa paragone a quella delle anime difettive.
Lorenzo, di origine aragonese, durante gli studi teologici compiuti in giovinezza aveva conosciuto il futuro papa Sisto II, il quale, una volta eletto Pontefice, lo volle a Roma come diacono della città.
Sia il papa che Lorenzo caddero vittime della persecuzione anticristiana lanciata dall’imperatore Valeriano nel 257: ed è in questo momento che comincia la leggenda del diacono. La tradizione, infatti, vuole che mentre papa Sisto II venisse decapitato, a Lorenzo venisse promessa la salvezza se avesse consegnato ai soldati le ricchezze della Chiesa, ma il suo rifiuto lo condusse ad una morte orribile: infatti egli venne posto su una graticola e bruciato vivo, diventando così martire della fede e santo per la Chiesa cattolica.
L’altro riferimento è a Gaio Muzio Scevola, personaggio leggendario della Roma repubblicana arcaica. Durante l’assedio dell’Urbe condotto dal re etrusco Porsenna, il giovane nobiluomo romano si offrì di infiltrarsi nel campo nemico per uccidere il sovrano avversario, tuttavia egli sbaglio obiettivo ed uccise un funzionario. Catturato da Porsenna diede comunque prova del suo valore e della sua volontà punendo la mano colpevole dell’errore, la destra, mettendola in un braciere e lasciandola bruciare. Colpito da tanta forza di volontà, Porsenna decise di levare l’assedio a Roma, mentre Muzio, da quel giorno, venne detto ‘scevola’, cioè mancino.
Un terzo riferimento, questa volta alla mitologia greca, si trova ai vv. 103-105 in relazione al discorso di Beatrice sulla volontà assoluta e quella relativa, e riguarda la storia di Alcmeone, figlio del re Anfiarao e della regina Erifile, e la cui storia viene narrata da Stazio nella sua Tebaide. Anfiarao era uno dei sette re che partecipò alla prima guerra contro la città di Tebe e, avendo egli il dono della preveggenza, presagì la sua morte in battaglia a causa del tradimento della moglie Erifile, perciò comandò al figlio Alcmeone di vendicarlo uccidendola. Un altro riferimento a questo mito si trova già nell’Inferno, Canto XX, vv.32-36, dove Anfiarao è condannato nella bolgia degli indovini a girare con la testa ruotata all’indietro.
2Il Timeo di Platone, la filosofia tomistica e il Paradiso di Dante
Beatrice appare nel XXX Canto del Purgatorio, nel Paradiso Terrestre, come nuova guida del viaggiatore Dante e metafora della Teologia, la cui apparizione fa scomparire Virgilio, metafora della filosofia e dell’intelletto, impreparato ad affrontare l’ultima parte del viaggio. Il nucleo centrale di quel Canto, poi, si sviluppa proprio attorno al rimprovero di Beatrice che accusa Dante di aver abbandonato lei, la Teologia, per seguire altre filosofie.
La risposta della donna al secondo dubbio di Dante, cioè riguardo la disposizione delle anime beate nei cieli (vv. 28-63) apre proprio un confronto, tanto complesso quanto interessante, in cui le nozioni teologiche sviluppate dalla teologia scolastica, e in particolare da san Tommaso, si confrontano con la filosofia platonica, e in particolare nelle tesi contenute nel Timeo. Si tratta di uno dei più profondi e complessi dialoghi di Platone, in cui il filosofo affronta i temi della cosmologia e della fisica arrivando a conclusioni che avranno forti ripercussioni sulle formulazioni filosofiche dei secoli a venire.
In esso Platone introduce la figura del Demiurgo, una figura che opera una mediazione tra il mondo delle Idee e quello delle cose; questo mediatore divino, la cui figura verrà poi accostata al Dio ebraico-cristiano, ha il compito di plasmare la materia a immagine delle Idee. Secondo la dottrina platonica, le anime forgiate dal Demiurgo dopo la morte tornano alla stella da cui sono state separate al momento della nascita: in questo modo Dante si ricollega anche con l’uso pagano di chiamare gli dèi con i nomi dei pianeti (ai vv. 62-63 si citano Giove, Mercurio e Marte proprio con questa funzione ambivalente), confondendo quindi il naturale influsso delle stelle con l’azione creatrice e creando una relazione diretta tra i diversi cieli e la destinazione delle anime dopo la morte.
Ai teologi medievali, san Tommaso su tutti, non era sfuggita la coerenza e la problematicità del pensiero platonico e di quello aristotelico, e cercavano quindi di accordarla razionalmente con il discorso teologico cristiano. La soluzione che Dante fornisce in questo caso, ai vv. 55-60, sembra derivare dalle considerazioni di Alberto Magno sul Timeo contenute nel De natura et origine animae: la chiave di lettura dell’opera platonica non è letterale, ma bensì allegorica.
In realtà le anime appartengono tutte all’Empireo (v. 34), e si mostrano a Dante nei diversi cieli solo per dargli una raffigurazione immediata del loro maggiore o minore grado di beatitudine (vv. 37-39), e non perché “appartengono” a quello specifico cielo; si tratta di un concetto importante anche a livello letterario perché elimina le analogie tra il Paradiso e gli altri due luoghi attraversati dal poeta, dove dannati e penitenti venivano posti in luoghi concretamente diversi e sottoposti a pene più o meno severe in base alla gravità dei loro peccati: in Paradiso le anime beate appartengono tutte all’Empireo, e si distinguono soltanto in base al loro grado di beatitudine.
3Canto IV del Paradiso: testo e parafrasi
Testo
Intra due cibi, distanti e moventi
d'un modo, prima si morria di fame,
che liber'omo l'un recasse ai denti;
sì si starebbe un agno intra due brame
di fieri lupi, igualmente temendo;
sì si starebbe un cane intra due dame:
per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo,
da li miei dubbi d’un modo sospinto,
poi ch’era necessario, né commendo.
Io mi tacea, ma ’l mio disir dipinto
m’era nel viso, e ’l dimandar con ello,
più caldo assai che per parlar distinto.
Fé sì Beatrice qual fé Danïello,
Nabuccodonosor levando d’ira,
che l’avea fatto ingiustamente fello;
e disse: "Io veggio ben come ti tira
uno e altro disio, sì che tua cura
sé stessa lega sì che fuor non spira.
Tu argomenti: "Se ’l buon voler dura,
la vïolenza altrui per qual ragione
di meritar mi scema la misura?".
Ancor di dubitar ti dà cagione
parer tornarsi l’anime a le stelle,
secondo la sentenza di Platone.
Queste son le question che nel tuo velle
pontano igualmente; e però pria
tratterò quella che più ha di felle.
D’i Serafin colui che più s’india,
Moïsè, Samuel, e quel Giovanni
che prender vuoli, io dico, non Maria,
non hanno in altro cielo i loro scanni
che questi spirti che mo t’appariro,
né hanno a l’esser lor più o meno anni;
ma tutti fanno bello il primo giro,
e differentemente han dolce vita
per sentir più e men l’etterno spiro.
Qui si mostraro, non perché sortita
sia questa spera lor, ma per far segno
de la celestïal c’ ha men salita.
Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d’intelletto degno.
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende;
e Santa Chiesa con aspetto umano
Gabrïel e Michel vi rappresenta,
e l’altro che Tobia rifece sano.
Quel che Timeo de l’anime argomenta
non è simile a ciò che qui si vede,
però che, come dice, par che senta.
Dice che l’alma a la sua stella riede,
credendo quella quindi esser decisa
quando natura per forma la diede;
e forse sua sentenza è d’altra guisa
che la voce non suona, ed esser puote
con intenzion da non esser derisa.
S’elli intende tornare a queste ruote
l’onor de la influenza e ’l biasmo, forse
in alcun vero suo arco percuote.
Questo principio, male inteso, torse
già tutto il mondo quasi, sì che Giove,
Mercurio e Marte a nominar trascorse.
L’altra dubitazion che ti commove
ha men velen, però che sua malizia
non ti poria menar da me altrove.
Parere ingiusta la nostra giustizia
ne li occhi d’i mortali, è argomento
di fede e non d’eretica nequizia.
Ma perché puote vostro accorgimento
ben penetrare a questa veritate,
come disiri, ti farò contento.
Se vïolenza è quando quel che pate
nïente conferisce a quel che sforza,
non fuor quest’alme per essa scusate:
ché volontà, se non vuol, non s'ammorza,
ma fa come natura face in foco,
se mille volte vïolenza il torza.
Per che, s’ella si piega assai o poco,
segue la forza; e così queste fero
possendo rifuggir nel santo loco.
Se fosse stato lor volere intero,
come tenne Lorenzo in su la grada,
e fece Muzio a la sua man severo,
così l’avria ripinte per la strada
ond’eran tratte, come fuoro sciolte;
ma così salda voglia è troppo rada.
E per queste parole, se ricolte
l’ hai come dei, è l’argomento casso
che t’avria fatto noia ancor più volte.
Ma or ti s’attraversa un altro passo
dinanzi a li occhi, tal che per te stesso
non usciresti: pria saresti lasso.
Io t’ ho per certo ne la mente messo
ch’alma beata non poria mentire,
però ch’è sempre al primo vero appresso;
e poi potesti da Piccarda udire
che l’affezion del vel Costanza tenne;
sì ch’ella par qui meco contradire.
Molte fïate già, frate, addivenne
che, per fuggir periglio, contra grato
si fé di quel che far non si convenne;
come Almeone, che, di ciò pregato
dal padre suo, la propria madre spense,
per non perder pietà si fé spietato.
A questo punto voglio che tu pense
che la forza al voler si mischia, e fanno
sì che scusar non si posson l’offense.
Voglia assoluta non consente al danno;
ma consentevi in tanto in quanto teme,
se si ritrae, cadere in più affanno.
Però, quando Piccarda quello spreme,
de la voglia assoluta intende, e io
de l’altra; sì che ver diciamo insieme".
Cotal fu l’ondeggiar del santo rio
ch’uscì del fonte ond’ogne ver deriva;
tal puose in pace uno e altro disio.
"O amanza del primo amante, o diva",
diss’io appresso, "il cui parlar m’inonda
e scalda sì, che più e più m’avviva,
non è l’affezion mia tanto profonda,
che basti a render voi grazia per grazia;
ma quei che vede e puote a ciò risponda.
Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l’ ha; e giugner puollo
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’al sommo pinge noi di collo in collo.
Questo m’invita, questo m’assicura
con reverenza, donna, a dimandarvi
d’un’altra verità che m’è oscura.
Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi
ai voti manchi sì con altri beni,
ch’a la vostra statera non sien parvi".
Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville d’amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,
e quasi mi perdei con li occhi chini.
Parafrasi
allo stesso modo, morirebbe prima di fame,
chi dovesse scegliere quale tra i due addentare;
così starebbe un agnello in mezzo alla brama
di due lupi feroci, temendo entrambi allo stesso modo;
così starebbe un cane da caccia tra due daini:
per cui, se io tacevo, non mi biasimo,
né mi lodo, ché l'esser crucciato da diversi dubbi,
necessariamente mi tormentava allo stesso modo.
Io tacevo, ma il mio desiderio dipinto
l'avevo sul viso, e le mie domande,
più chiare che se espresse a parole.
Beatrice fece come Daniele,
quando tolse a Nabucodonosor quell'ira,
che l'aveva reso ingiustamente crudele;
e disse:« Vedo che tu sia combattuto
da uno e dall'altro desiderio, e la tua ansia
blocca sé stessa e non può esprimersi.
Tu pensi: “Se persiste la buona volontà,
per qual motivo il peccare degli altri
fa diminuire i miei meriti?”.
Inoltre ti da motivo di dubitare
il fatto che sembrino tornare alle stelle
secondo l'opinione di Platone.
Queste sono le domande che sulla tua volontà
premono allo stesso modo; ma per prima
affronterò quella che è più falsa.
Il Serafino che più s'addentra in Dio,
Mosè, Samuele, o uno dei due Giovanni
che preferisci, e perfino la Vergine,
non siedono in un cielo diverso
dagli spiriti che ti sono apparsi,
né ci rimangono per meno anni;
ma tutte le loro anime abbelliscono l'Empireo
ma la loro vita si differenzia
per il diverso grado di beatitudine che godono.
Apparirono in questo cielo, non perché gli toccò in sorte
questo cielo, ma per significare
che nell'Empireo hanno la posizione più bassa.
Così conviene parlare all'intelletto umano,
perché apprende solo dai sensi
ciò che rende oggetto di conoscenza intellettuale.
Allo stesso modo le Scritture si adeguano
al vostro intelletto, e piedi e mani
attribuiscono a Dio mentre significano altro;
e la dottrina della Chiesa con aspetto umano
Gabriele e Michele vi raffigura,
ed anche l'altro che Tobia fece santo.
Ciò che il Timeo dice dell'anima
non ha riscontri qui,
giacché, ciò che dice, pare lo intenda.
Dice che l'anima torna alla sua stella
credendo che essa ne sia stata recisa
quando la natura le diede sostanza;
e forse la sua opinioni è diversa
da com'è descritta, e può essere
il suo intento, non meritevole di scherno.
Ma se egli intende che a questi cieli dipenda il
merito o la responsabilità dell'influenza sugli uomini, forse
in qualche modo dice il vero.
Questo concetto, male interpretato, portò in errore
quasi tutto il mondo, che con Giove,
Mercurio e Marte nominarono i pianeti.
L'altro dubbio che ti attanaglia
è meno velenoso, perché il suo errore
non potrebbe allontanarti da te.
Può sembrare ingiusta la giustizia divina
agli occhi dei mortali, è un argomento
di fede e non di eresia.
Ma poiché l'intelletto umano può
ben comprendere questa verità,
come desideri, te la spiegherò.
Se c'è violenza quando chi la subisce
in niente aiuta chi la commette,
queste anime non furono perciò scusate:
perché la volontà, se è forte, non si spegne,
ma fa come in natura fa la fiamma,
se anche mille volte la violenza la piega.
Perché se la volontà si piega, tanto o poco,
segue la forza; e così fecero loro
pur potendo tornare in convento.
Se la loro volontà fosse stata forte,
come quella che tenne san Lorenzo sulla graticola,
e fece Muzio Scevola severo con la sua stessa mano,
così le avrebbe spinte nuovamente sulla strada per il convento
da cui erano state prese, non appena vennero sciolte;
ma una volontà così forte è tanto rara.
E con ciò che ho detto, se le hai
intese correttamente, è chiuso quest'argomento
che ti avrebbe danneggiato più volte.
Ma ora si presenta un'altra questione
davanti ai tuoi occhi, tale che da solo
non la scioglieresti: ti arrenderesti molto prima.
Io ti ho certamente convinto che
l'anima beata non possa mentire
perché sta sempre vicina a Dio;
e poi potresti sentire Piccarda dire
che Costanza mantenne l’attaccamento al velo;
e così sembra che essa mi contraddica.
O fratello, molte volte è accaduto
che, per sfuggire ad un pericolo, controvoglia
è stato fatto ciò che non si doveva;
come Alcmeone, che, come gli fu chiesto
da suo padre, uccise sua madre,
per non perdere l’affetto paterno divenne spietato.
A questo punto voglio che pensi che
la forza così mischiata in questo modo alla volontà,
conducono a peccati che non si possono perdonare.
La libera volontà non conduce al male;
ma ci arriva nel momento in cui teme,
se si tira indietro, di cadere in un danno maggiore.
Tuttavia, quando Piccarda parla della volontà,
si riferisce a quella assoluta, mentre io
a quella relativa; sicché entrambe diciamo la verità».
Questo fu il senso del santo discorso
che sgorga dalla fonte di ogni verità;
e che placò entrambi i desideri.
«O prediletta da Dio, o divina»,
dissi io rispondendo, «i cui discorsi mi riempiono
e mi scaldano tanto, da rendermi sempre più vivo,
la mia gratitudine non è sufficiente,
a ringraziarvi a dovere;
ma lo faccia l’Onnipotente al posto mio.
Io comprendo che non è mai sazio
l’intelletto umano, non lo illumina quella verità
fuori dal quale non sussiste altra verità.
Vi si accomoda, come un animale nella tana,
appena la raggiunge; e può raggiungerla:
se non potesse, ogni desiderio sarebbe vano.
Per questo nasce, come un germoglio
alle radici della verità il dubbio; ed è naturale
che ci spinga alla cima di vetta in vetta.
Questo mi rassicura, e mi spinge
con reverenza, o signora, a chiedervi
di un’altra verità che non comprendo.
Voglio sapere se l’uomo può compensare
al mancato rispetto dei voti, con altre opere di bene,
che voi non consideriate insufficienti».
Beatrice mi guardò con occhi così pieni
di scintille d’amor divino,
che, sconfitta, la mia vista venne meno,
e quasi mi smarrii con gli occhi chiusi.
4Canto IV del Paradiso: figure retoriche
- Vv. 1-6, Intra due…due dame: lunga similitudine che raffigura l’incertezza di Dante e cita il paradosso dell’asino di Buridano secondo cui un asino, posto tra due uguali mucchi di fieno, morirebbe di fame non sapendo scegliere tra i due.
- V. 28, india: dantismo che descrive il movimento di un’anima verso Dio.
- V. 34, il primo giro: perifrasi per Empireo.
- V. 48, e l’altro che Tobia fece sano: perifrasi per l’Arcangelo Raffaele.
- V.53, decida: latinismo derivante dal verbo “decidere”, cioè “tagliare”.
- V.73, pate: latinismo derivante dal verbo “patere”, cioè “soffrire”.
- Vv. 91-93, Ma or … lasso: allegoria in cui il dubbio viene paragonato ad un passo di montagna difficile da attraversare.
- V. 96, primo vero: perifrasi per Dio.
- V. 118, amanza: provenzalismo proveniente da “amansa”, cioè donna amata.
- Vv. 130-132, Nasce per… collo: metafora in cui si riprende l’immagine della conoscenza che procede superando differenti dubbi come se superasse i diversi passi di una montagna da scalare.