Canto XXXIV dell'Inferno di Dante: parafrasi, analisi e significato

Parafrasi, analisi e significato del canto XXXIV dell'Inferno di Dante. Il Poeta si trova nella Giudecca, la quarta zona di Cocito, dove si trovano i traditori dei benefattori. Dante e Virgilio attraversano la natural burella e, dall'Inferno, arrivano all'emisfero australe.
Canto XXXIV dell'Inferno di Dante: parafrasi, analisi e significato
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1Introduzione al canto XXXIV dell’Inferno

Illustrazione per il verso finale del canto 34 dell'Inferno di Dante: "E quindi uscimmo a riveder le stelle".
Illustrazione per il verso finale del canto 34 dell'Inferno di Dante: "E quindi uscimmo a riveder le stelle". — Fonte: getty-images

Siamo alla fine della prima cantica e Dante sta per vedere Lucifero. Come in un film horror o in video-game siamo davanti al mostro finale e Dante-personaggio (o agens) e i lettori sono pieni di attesa. Come sarà Lucifero? L’impressione è quella di entrare in una sala motori di un’enorme nave e, infatti, stiamo per vedere come funziona il motore del male, se così si può dire. Dante insiste sull’idea del meccanismo perché lo vede privo del necessario senso esistenziale, inerte, incapace di amare. È interessante notare che lo spavento creato dal demone non poggia tanto sull’aspetto fisico, ma sul simbolismo. 

Tutte le anime contenute nell’inferno, a un certo punto, hanno partecipato di quel male, lo hanno scelto, e si sono dannate. Tutte le anime hanno nostalgia della grande occasione sprecata: la vita. Vorrebbero tornare indietro, e non possono più. Il dolore si rigenera in loro continuamente senza potersi mai sfogare in un’accumulazione spasmodica che non conosce termine. Come Lucifero, infatti, che soffre e fa soffrire per l’eternità. 

Quello sì, è spaventoso. Le ali di pipistrello di Lucifero sono come le pale di un mulino e rappresentano il moto verso il nulla, l’atto più inutile, lo spreco dell’esistenza, l’occasione mancata. Insomma ci colpisce ciò che Lucifero simboleggia. 

Coordinate del canto XXXIV dell’Inferno:

  • Tempo: Le sette del pomeriggio di sabato 9 aprile; dopo il passaggio nell’emisfero australe, le sette di mattina.
  • Spazio: Non cerchio, Giudecca
  • Personaggi: Dante e Virgilio, Lucifero, Giuda, Bruto, Cassio.
  • Colpa: il tradimento dei benefattori, dell’autorità divina (Chiesa) e umana (Impero).
  • Pena: i traditori sono conficcati interamente nel ghiaccio, immobilizzati in posizioni diverse: distesi, eretti, a capofitto, rovesciati all’indietro. Non potendo comunicare stanno in un eterno e assoluto silenzio.
  • Contrappasso: analogia per il loro cuore gelido, con l’insensibilità al bene.

2Canto XXXIV dell’Inferno: testo

"Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira
",  

disse 'l maestro mio, "se tu 'l discerni".
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando l'emisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che 'l vento gira,  

veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, ché non lì era altra grotta.
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l'ombre tutte eran coperte,  

e trasparien come festuca in vetro.  

Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com'arco, il volto a' piè rinverte
.  

Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch'al mio maestro piacque di mostrarmi  

la creatura ch'ebbe il bel sembiante,
d'innanzi mi si tolse e fé restarmi,  

"Ecco Dite", dicendo, "ed ecco il loco
ove convien che di fortezza t'armi".  

Com'io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo,  

però ch'ogne parlar sarebbe poco.
Io non mori' e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno,
qual io divenni, d'uno e d'altro privo.  

Lo 'mperador del doloroso regno
da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia;  

e più con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia
:  

vedi oggimai quant'esser dee quel tutto
ch'a così fatta parte si confaccia.
S'el fu sì bel com'elli è ora brutto,
e contra 'l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui proceder ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand'io vidi tre facce a la sua testa!
L'una dinanzi, e quella era vermiglia;
l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa
sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;  

la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla
.  

Sotto ciascuna uscivan due grand'ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid'io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto s'aggelava
.  

Con sei occhi piangëa, e per tre menti
gocciava 'l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co' denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso 'l graffiar, che talvolta la schiena  

rimanea de la pelle tutta brulla.
"Quell'anima là sù c'ha maggior pena",
disse 'l maestro, "è Giuda Scarïotto,
che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due c'hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;  

e l'altro è Cassio, che par sì membruto.  

Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto
".
Com'a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l'ali fuoro aperte assai,  

appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra 'l folto pelo e le gelate croste.  

Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l'anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov'elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com'om che sale,
sì che 'n inferno i' credea tornar anche
.  

"Attienti ben, ché per cotali scale",
disse 'l maestro, ansando com'uom lasso,  

"conviensi dipartir da tanto male".  

Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso
e puose me in su l'orlo a sedere;
appresso porse a me l'accorto passo.  

Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com'io l'avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere
;
e s'io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto ch'io avea passato.
"Lèvati sù", disse 'l maestro, "in piede:
la via è lunga e 'l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede".  

Non era camminata di palagio
là 'v'eravam, ma natural burella
ch'avea mal suolo e di lume disagio
.  

"Prima ch'io de l'abisso mi divella,
maestro mio", diss'io quando fui dritto,
"a trarmi d'erro un poco mi favella:
ov'è la ghiaccia? e questi com'è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc'ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?".
Ed elli a me: "Tu imagini ancora
d'esser di là dal centro, ov'io mi presi
al pel del vermo reo che 'l mondo fóra.
Di là fosti cotanto quant'io scesi;
quand'io mi volsi, tu passasti 'l punto
al qual si traggon d'ogne parte i pesi.
E se' or sotto l'emisperio giunto
ch'è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto
fu l'uom che nacque e visse sanza pecca
;
tu haï i piedi in su picciola spera
che l'altra faccia fa de la Giudecca.
Qui è da man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim'era.  

Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo,
e venne a l'emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch'appar di qua, e sù ricorse"
.  

Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto
d'un ruscelletto che quivi discende
per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso,
col corso ch'elli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d'alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch'i' vidi de le cose belle
che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.  

E quindi uscimmo a riveder le stelle.  

3Canto XXXIV dell’Inferno: parafrasi

«Stanno arrivando i vessilli del re dell’inferno, quindi guarda davanti» disse il mio maestro, «se riesci a vederlo». Era come quando c’è una fitta nebbia o quando scende la notte nel nostro emisfero e si scorge in lontananza un mulino mosso dal vento; così mi parve di vedere un edificio simile. Costretto dal vento mi riparai dietro la mia guida, non essendoci altro rifugio. Ormai mi trovavo, e lo scrivo nei miei versi con paura, nella Giudecca dove le anime giacevano del tutto sepolte nel ghiaccio, e si vedevano come pagliuzze nel vetro. Alcune erano sdraiate, altre dritte, a volte stavano con la testa in alto e a volte con i piedi; altre ancora portavano il volto ai piedi, piegandosi come si piega come un arco. Quando fummo avanzati fino al punto in cui parve opportuno al mio maestro mostrarmi la creatura un tempo così così bella, si scostò, mi fece fermare e disse: «Ecco Dite ed ecco il luogo dove devi armarti di coraggio». Lettore, non chiedere come io in quel momento rabbrividii e rimasi muto: non riuscirei a spiegartelo a parole. Io non morii e non rimasi in vita: se hai un po' d'ingegno, cerca da solo di capire come rimasi sospeso tra la vita e la morte. L'imperatore del doloroso regno emergeva dal ghiaccio fino alla vita e c'è maggior proporzione fra me e un gigante che non fra i giganti e le sue braccia: fatti dunque un’idea di quali fossero le dimensioni di questa creatura! Se fu tanto bello quanto adesso è orrido, e pur bello osò ribellarsi al suo Creatore, è giusto che derivi ogni male da lui. Mi prese una grande meraviglia quando mi accorsi che la sua testa aveva tre facce: quella al centro era rossa; le altre due si congiungevano alla prima a metà di ogni spalla, e si univano nella parte posteriore del capo: la destra aveva un colore tra il bianco e il giallo; la sinistra era nera, cioè del colore di quelli che vengono dal paese dove il Nilo entra nella sua valle. Sotto ciascuna faccia spiccavano due grandi ali, proporzionate a una creatura così enorme: non ho mai visto vele di navi così estese. Non erano piumate, ma sembravano quelle di un pipistrello; e Lucifero le sbatteva, producendo da sé tre venti: per questo il lago di Cocito si ghiacciava. Piangeva con sei occhi e le lacrime gocciolavano sui tre menti, dove si mischiavano in una bava sanguinolenta. In ognuna delle tre bocche dilaniava coi denti un peccatore, come fosse una macina, tormentandone così tre allo stesso tempo. Per il peccatore al centro l'essere morso non era niente rispetto all'essere graffiato, al punto che la schiena gli restava completamente scorticata. Il maestro disse: «Quel dannato lassù che di più patisce la sua pena è Giuda Iscariota: tiene la testa dentro le fauci di Lucifero e fa pendere fuori le gambe. Degli altri due con la testa rivolta in basso, quello che pende dalla faccia nera è Bruto: guarda come si contorce in silenzio! L'altro è Cassio, che sembra così robusto. Ma è giunta quasi la notte ed è tempo di andare; ormai abbiamo visto ogni cosa». Come Virgilio ordinò, mi tenni stretto al suo collo; intanto egli attese il momento e il punto opportuno, e quando le ali del mostro si aprirono abbastanza si aggrappò ai suoi fianchi irsuti; poi cominciò a scendere tenendosi alle sue ciocche, passando tra il suo pelo folto e la crosta gelata di Cocito. Quando fummo arrivati nel punto in cui la coscia si congiunge al bacino, Virgilio, con fatica e difficoltà, girò la testa dove Lucifero aveva le gambe, aggrappandosi al suo pelo come dovendo salire, al punto che io ero convinto stessimo tornando ancora all’Inferno. Il maestro, con il fiatone per la fatica, disse: «Reggiti bene, poiché per questa via dobbiamo allontanarci da tanto male». Poi uscì fuori attraverso un’insenatura nella roccia, e mi fece sedere sul bordo di quest’apertura; quindi si diresse circospetto nella mia direzione. Io alzai lo sguardo e credetti di vedere Lucifero come l'avevo lasciato, invece lo vidi con le gambe rivolte verso l’alto; e se io in quel momento rimasi perplesso, chissà cosa pensa la gente ignorante, che non ha capito qual è il punto che avevo appena oltrepassato. Il maestro disse: «Alzati in piedi: la via è lunga e il cammino è ostico; il sole è già a metà dell’ora terza». Il punto in cui eravamo non offriva un percorso agevole come in un palazzo, ma era un cunicolo sotterraneo col suolo impervio e scarsa luce. Alzatomi, dissi: «Maestro, prima di abbandonare l'abisso infernale, aiutami a risolvere un dubbio: dov'è il ghiaccio? Lucifero perché giace confitto sottosopra? e come è possibile che il sole abbia percorso in tanta fretta il tragitto dalla sera alla mattina?» E lui a me: «Ragioni ancora come se ti trovasi al di là del centro della Terra, lì dove mi sono aggrappato al pelo di quell’animale spaventoso che rovina il mondo. Tu sei stato di là finché sono disceso; giratomi, tu hai oltrepassato il punto verso il quale tendono tutti i gravi della terra. Adesso sei giunto sotto l'emisfero opposto a quell’altro che copre le terre emerse, e dove, sotto il punto più alto dell'emisfero celeste, fu ucciso Cristo che nacque e visse senza peccato: tu poggi i piedi su una piccola sfera che ha la faccia opposta nella Giudecca. Qui è mattino, mentre nell'altro emisfero è sera; Lucifero, che ci ha fatto da scala col suo pelo, non ha cambiato posizione. Cadde giù dal cielo da questa parte e la terra, che prima emergeva dalle acque nell'emisfero australe, atterrita si nascose sotto il mare e riemerse nel nostro emisfero; e forse, per fuggirlo, quella che di qua appare lasciò questo spazio vuoto, riemergendo nell'emisfero australe».

Laggiù c'è un luogo tanto lontano da Belzebù quanto si estende la cavità sotterranea, invisibile ma da cui si avverte il gorgoglio di un fiumiciattolo che scende qui per una cavità scavata nella roccia lungo il suo corso, che ha poca inclinazione. Il maestro ed io entrammo in quel cammino nascosto per tornare alla luce del sole; e senza sosta salimmo in alto, lui per primo e io secondo, fino a quando vidi gli astri del cielo attraverso un'apertura circolare. E di lì uscimmo per rivedere le stelle.

4Lucifero, macchina infernale del canto XXXIV dell’Inferno

Angelo caduto di Ricardo Bellver
Angelo caduto di Ricardo Bellver — Fonte: getty-images

«Vexilla regis prodeunt inferni», avanzano verso di noi le insegne del re infernale. È la frase con cui Virgilio annuncia solennemente a Dante l’arrivo di quella immensa macchina del male che è Lucifero. Sembra di stare in un campo di battaglia per la presenza dei vessilli (c’era infatti il vessillifero negli eserciti); ma si preannuncia anche la famosa scalata che i due poeti compiranno: il vento gelido che spira da Lucifero, la nebbia che si alza tutta intorno e il ghiaccio in cui sono rinchiusi i dannati conferiscono un’ambientazione quasi alpina a tutto il passo (o speleologica, visto che ci troviamo sottoterra?) e culminerà con la scalata lungo l’immenso corpo del diavolo.  

Secondo le stime in base ai dati fornitici dallo stesso poeta, Lucifero doveva essere alto 1243 metri, un’altezza talmente esagerata che non può non risultare grottesca e parodica.

Ragioniamoci: Lucifero è il corrispettivo dell’immensità di Dio la cui gloria penetra ovunque e ovunque Dio muove le anime, i cieli e le stelle. Lucifero invece blocca e ghiaccia i dannati che sono nel IX cerchio, ma l’eco del suo movimento incessante e vano è in tutto l’inferno. Lui è la macchina che muove tutto. Perché il male – e Dante lo dimostra – paralizza nel peccato, con una coazione a ripetere il proprio errore che durerà per l’eternità. Non sono forse questi i dannati che abbiamo incontrato in tutto l’Inferno? Dunque all’immensità incalcolabile di Dio, fa da contraltare la grandezza misurabile da Lucifero. Al movimento generato dall’Amore e che genera a sua volta Amore, corrispondono invece il risentimento, l’odio e l’ignoranza in cui si consuma Lucifero. Al riso angelico dei beati, si avverte solo il lugubre mugugno dell’angelo caduto che mastica i tre traditori senza mai divorarli, e intanto sgocciola il suo pianto come lo spurgo di una macchina.

È vero: le proporzioni sono sbagliate e non c’è il macabro. Ma Lucifero spaventa lo stesso con il monito della sua umiliazione e con la sua vita non-vita inutile, vana, ripetitiva e vuota. Lucifero allora piange di un «pianto meccanico, che non turba Lucifero nella sua inerte abitudine di ventilatore meccanico e nella sua pera automatica di gramola e di striglia meccanica» (Rossi).

5Sintesi narrativa del canto XXXIV dell’Inferno

Il canto 34 dell'Inferno di Dante illustrato da Gustave Doré
Il canto 34 dell'Inferno di Dante illustrato da Gustave Doré — Fonte: getty-images

vv. 1-69: Entrati nell'ultima zona di Cocito, Virgilio segnala a Dante che stanno per arrivare al cospetto di Lucifero. C’è nebbia e si vede decisamente male. Si sente solo il vento gelido prodotto dalle numerose ali dell’angelo caduto. Dante per proteggersi dal vento si mette dietro Virgilio, finché a un certo punto, si scosta e gli mostra “Dite”, metonimia di tutto l’Inferno. È proprio Lucifero. A Dante sembra come di scorgere in lontananza un enorme mulino a vento che, secondo le proporzioni, doveva essere alto, grande e imponente come un odierno grattacielo.   

Lucifero, che dal petto in su emerge dal ghiaccio in cui stanno conficcati i traditori ha sei occhi, sei ali di pipistrello, tre enormi bocche in cui maciulla Giuda, traditore di Cristo, e Bruto e Cassio, traditori di Cesare e dell’Impero. Dai suoi occhi cola un pianto eterno che si mescola alla bava e al sangue dei dannati.  

vv. 70-87: Con la visione di Lucifero si passa ad un snodo cruciale e definitivo dell'esperienza dell’Inferno: i due pellegrini devono risalire lungo il suo corpo quasi in una scalata da moderno alpinismo; come in cordata Virgilio prende in braccio Dante e comincia a muoversi lungo corpo di Lucifero; arrivato all'altezza dell'anca, si rovescia e comincia a salire fino a quando riesce a posare Dante sull'orlo roccioso di una grotta. 

vv. 88-139: Dante non si rende conto di quello che è successo: pensando di vedere ancora Lucifero, ne vede invece le gambe rivolte verso l'alto. Virgilio gli dice che hanno superato il centro della terra e gli spiega anche che Lucifero sta in quella posizione da quando, precipitato giù dal cielo, con la sua caduta ha scavato la terra, formando dalla parte opposta la montagna dell’Eden. Attraverso un piccolo sentiero, Dante e Virgilio escono all'aperto, sotto il cielo stellato

5.1Il Cocito di Dante

Il Cocito nella mitologia greca è uno dei cinque fiumi degli inferi il cui nome può significare "lamento", "pianto" o "fiume di ghiaccio". Proprio da quest’ultima interpretazione Dante descrive il Cocito come un grande lago ghiacciato diviso in quattro zone situato nel fondo dell’Inferno. Le aree in cui il Sommo Poeta divide il cocito sono:

  1. la Caina: questa prima zona deve il proprio nome al personaggio biblico Caino e in essa sono puniti i traditori dei;
  2. la Antenora: prende il nome dal personaggio della mitologia greca Antenore, avrebbe tradito la città di Troia consegnando il Palladio a Ulisse e Diomede. Qua vengono appunto puniti i traditori della patria;
  3. la Tolomea: in questa zona si trovano i traditori degli ospiti;
  4. la Giudecca l'ultima zona del Cocito in cui Dante si trova arrivati al 34esimo cantico.

6Personaggi del canto XXXIV dell’Inferno

6.1Lucifero

Incisione di Lucifero con Giuda
Incisione di Lucifero con Giuda — Fonte: getty-images

Lucifero, «portatore di luce», compare nell’Antico e nel Nuovo Testamento senza essere collegato con precisione al diavolo o a Satana, ma in espressioni metaforiche. Viene chiamato con questo nome il re di Babilonia – città celebre per la sua corruzione – dal profeta Isaia (Is 14, 1-15).

L’identificazione di Lucifero con Satana e con l’origini di tutti i mali si fa strada nei primi secoli del Cristianesimo come si vede nell’Apologetica cristiana e nella Patristica (II-V sec. d. C.): è qui che viene accostato al tema del peccato originario di superbia dell’Angelo ribelle e dei suoi seguaci.

Sono i Padri della Chiesa, infatti, a ricordare la sua antica bellezza angelica: «dictus est autem Lucifer, quia prae ceteros luxit suaque pulchritudinis consideratio eum excaecavit», e cioè fu chiamato Lucifero perché fu più luminoso degli altri angeli e lo accecò la considerazione della sua bellezza (Bonaventura, Compendium theologicae veritatis II 28). E Sant’Agostino afferma: «Omnia mala mundi sua sunt pravitate commixta», tutti i mali del mondo provengono dalla sua malignità (In scripturam commentarii Sermo quartus). Anche nell’Apocalisse di Giovanni (Ap 12, 7-9) l’identificazione risulta ormai chiarissima: 

«Et factum est proelium in caelo, Michael et angeli eius, ut proeliarentur cum dracone. Et draco pugnavit et angeli eius, 8 et non valuit, neque locus inventus est eorum amplius in caelo. 9 Et proiectus est draco ille magnus, serpens antiquus, qui vocatur Diabolus et Satanas, qui seducit universum orbem; proiectus est in terram, et angeli eius cum illo proiecti sunt». 

«Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, 8ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo. 9E il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli».  

Il nome Satana avrà più successo in seguito, mentre Lucifero ricorderà l’antica natura del diavolo come angelo caduto. Nel poema dantesco, Lucifero è costretto ad un movimento verso il nulla, come un mulino a vento: un cerchio vano che muove un’aria gelida e soffia sui dannati, perfetto opposto di Dio che invece muove i cieli e le stelle e risplende su tutto l’universo e sui beati

Da un punto di vista fisico, Porena ha notato l’evidente sproporzione in cui il poeta incappa nella descrizione: se Lucifero, stando alla proporzione che fa il poeta, è alto più di 1000 metri, un uomo dentro la sua bocca sarebbe stato grande come una formica. Come poteva Dante vedere Bruto, Cassio e Giuda? Non poteva: con Lucifero Dante sembra essersi impegnato poco, ma non credo tanto per il fatto che non poteva renderlo più spaventoso, quanto per il fatto che è il suo meccanismo ad essere inquietante e la quantità del male che esso incarna doveva apparire comunque smisurata e difforme. 

6.2Giuda Iscariota del canto XXXIV dell’Inferno

Giuda è il discepolo di Gesù, tra i suoi più cari nel gruppo dei dodici Apostoli. Forse prese il nome dal suo villaggio natale Qerjjoth, nella Giudea. Il nome «Iscariota» potrebbe invece derivare da «sicario», nomen omen, visto che in effetti a causa del suo tradimento Gesù fu ucciso. Un’altra candidata è la parola sheqer che in ebraico significa «menzogna». A lungo ci si è interrogati su quali potessero essere state le cause del tradimento da parte di Giuda, ma senza successo. 

Da quanto emerge nelle Scritture, sembra che Cristo sia già a conoscenza del tradimento e che anzi esso sia in qualche modo necessario a compiere il suo destino. Il tradimento di Giuda avvenne con i famosi 30 denari datigli dal Sinedrio, che lui tentò di restituire vanamente. 

Disperato per il rimorso, si impiccò. Per Dante, Giuda è il traditore per eccellenza tanto è vero che il nome della zona prende il nome da lui «Giudecca». 

6.3Marco Giunio Bruto nel canto XXXIV dell’Inferno

Morte di Marco Giunio Bruto dopo la battaglia di Filippi (85 a.C. o 78/79 a.C. - 42 a.C.)
Morte di Marco Giunio Bruto dopo la battaglia di Filippi (85 a.C. o 78/79 a.C. - 42 a.C.) — Fonte: getty-images

Bruto nacque a Roma nell’82 a. C. ed entrò presto nelle grazie di Cesare. Seguì alterne vicende politiche perché, nella famosa guerra civile tra Cesare e Pompeo, patteggiò per quest’ultimo dopodiché tornò nelle schiere cesariane dopo la battaglia di Farsalo che determinò la sconfitta definitiva di Pompeo. Bruto era un grande amante della repubblica e della democrazia.  

Fu lui a capo della congiura che alle idi di marzo del 44 a.C. uccise Cesare. Celebre è la frase che Cesare pare abbia pronunciato (ma naturalmente non esiste modo di provarlo) scorgendolo tra i suoi assalitori: Tu quoque, Brute, fili mi, «Anche tu, o Bruto, figlio mio». Cesare in effetti aveva instaurato un regime a Roma, ma non diversamente da quanto avevano i dittatori Mario e Silla prima di lui, che avevano segnato nel terrore il loro periodo di dominio. 

Bruto fu sconfitto a Filippi nel 42 a.C. dalle truppe di Marco Antonio e di Ottaviano (il futuro Augusto) e morì suicida. 

6.4Gaio Cassio Longino nel canto XXXIV dell’Inferno

Fu questore di Crasso nel 53 a.C. e tribuno nel 49, quando fu dalla parte di Pompeo nella guerra civile. Dopo la battaglia di Farsàlo fu perdonato da Cesare che lo accolse tra i suoi. Partecipò, insieme a Bruto, alla congiura contro Cesare, dopo la quale riparò in Oriente, dove, per conto del senato, sconfisse, a Laodicea, Cornelio Dolabella, re della Cappadocia (43 a.C.). 

Ottenne anche il comando delle province orientali, ma dopo il colpo di Stato, da parte di Ottaviano e Antonio, fu messo fuori legge. 

Battuto a Filippi da Antonio, si uccise

La tradizione attribuisce a Cassio, in relazione al tirannicidio, moventi meno ideali e più pratici, quali l'odio o l'invidia (a ciò accennerebbe il colore giallastro della faccia di Lucifero) nei confronti di Cesare, ma successivamente i due tirannicidi sono stati sempre accomunati nel medesimo ruolo e valore simbolico di difensori della libertà

7Analisi del canto XXXIV dell’Inferno

7.1Un canto molto rapido

Il canto è diviso nettamente in due parti:   

  1. l’arrivo nel punto più basso dell’Inferno dove si trova Lucifero (vv. 1-67)
  2. il faticoso viaggio per uscire dall’Inferno attraverso il passaggio nel centro della Terra (vv. 68-139).
Immagine di Dante e Virgilio
Immagine di Dante e Virgilio — Fonte: ansa

La descrizione della Giudeccaquarta zona del IX cerchio – è piuttosto rapida, con pennellate molto nette e con una precisione che rischia di essere non evocativa, ma mera informazione. Tra l’altro non cita nessuna anima di questa zona, cosa che non era accaduta neanche nell’anti-inferno tra gli ignavi dove almeno, seppur con una misteriosa perifrasi, aveva citato un’anima famosa: «colui che fece per viltade il gran rifiuto». 

I dannati sono i traditori dei benefattori, ma non essendo nominati dobbiamo concentrarci sui tre che sono in pasto a Lucifero: Giuda, traditore di Cristo e quindi della Chiesa, Bruto e Cassio, traditori di Cesare e quindi dell’Impero. Dunque il ben-fare si esprime per Dante nell’equilibrio spirituale-politico garantito dalla Chiesa e dall’Impero, i due soli che sono espressione in terra dell’unico sole dell’Universo, cioè Dio. 

La descrizione di Lucifero riprende quella dei giganti rispetto ai quali egli è immensamente più grande, oltrepassando di molto i mille metri. Lucifero si rivela ben presto una parodia della Trinità: tre facce, tre induzioni verso il male, che saranno allora impotenza, ignoranza, malvagità

Tutto si svolge rapidamente e così ci troviamo in un anello di passaggio dove Virgilio e Dante si lanciano in un’impresa alpinistica, scalando il grosso corpo di Lucifero

C’è addirittura tempo per una descrizione dottrinale in cui il poeta latino spiega l’origine della struttura infernale (la caduta di Lucifero, lo spostamento conseguente della Terra) e poi eccoli di nuovo a piedi, sempre più rapidi, attraverso la «natural burella» giungendo infine a rivedere le stelle. 

7.2Uno scenario desolante

Davanti allo scenario dell’acquario ghiacciato dove le anime sono imprigionate e del vento che spira addosso, Dante si nasconde istintivamente dietro il maestro Virgilio: l’allievo si nasconde dietro la ragione illuminante, si ripara dalle spire fredde del male, si affida al maestro completamente. Infine Dante vede Lucifero quando il momento è opportuno. Ci siamo già soffermati sulla descrizione, vediamo invece il particolare tecnico-retorico che Dante utilizza per sottolineare le sue reazioni. 

Dante si serve di un’ineffabile negativo. Spieghiamoci meglio: di solito l’ineffabile è associato a esperienze positive (il bacio degli innamorati, la bellezza mozzafiato di un tramonto, etc.; o la visione di Dio di cui Dante parlerà più avanti). Qui invece l’ineffabile è il negativo, cioè lo stato tra la vita e la morte in cui Dante si trova. Confida quindi che il lettore capisca lo stato in cui si è trovato alla vista del male assoluto. 

Ciononostante grazie alla lucidità datagli da Virgilio, Dante – poeta dell’esattezza – cerca di descriverlo in modo convincente. L’immensa macchina del male deve essere inanimata, non ci sono persone, non c’è vita, non c’è ricordo. La solennità di quest’incontro desolante è scandita dal vento che turbina tutt’intorno e dal sibilo delle ali luciferine.

Qual è lo scenario che abbiamo di fronte? Un acquario ghiacciato, perché il Cocito è stato gelato. Ma pensandoci meglio sembrerebbe davvero di percorrere il campo di una battaglia dove le vittime giacciono sconfitte e morte. Resta difficile capire se il loro nemico sia stato Lucifero o se esse siano un’allegorica torma guerriera al suo servizio: cuori gelidi, capaci di tutto. Come sempre, Dante lascia tutto sospeso nella sua dimensione poetica in cui le diverse interpretazioni creano un’unica atmosfera.

7.3Il processo ‘pasquale’ di Dante

John Freccero ha spiegato quale sarebbe il senso spirituale di questo passaggio attraverso il corpo di Lucifero. All’inversione spaziale corrisponde l’inversione morale, alla discesa la salita secondo un processo di morte e resurrezione che è tipico della dinamica pasquale alla base della vicenda di Cristo e quindi di tutto il Cristianesimo. Voltando le spalle a Lucifero, conosciuto il male e l’origine di esso, Dante può tentare la risalita attraverso il Purgatorio dove potrà finalmente esercitare la sua scelta consapevole di aderire al bene. Infatti: 

«Capovolgendosi al centro dell’universo, il pellegrino e la sua guida raddrizzano il mondo rovesciato della trascendenza negativa da cui sono partiti. Satana, il principe di questo mondo, appare dritto dalla prospettiva infernale; ma, dopo aver attraversato il punto di partenza cosmico, Dante può vederlo nella prospettiva di Dio, con la testa piantata in giù rispetto alla dimora celeste da cui precipitarono gli angeli ribelli» (J. Freccero, 1989, 247). 

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