Canto XXXIII del Purgatorio di Dante: spiegazione, parafrasi e personaggi

Testo e parafrasi del Canto 33 del Purgatorio di Dante, il canto delle sette donne e del sospiro di Beatrice. Dante e Virgilio si trovano nel Paradiso Terrestre.
Canto XXXIII del Purgatorio di Dante: spiegazione, parafrasi e personaggi
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1Introduzione

Il Purgatorio in un disegno di Franz von Byros
Fonte: ansa

Siamo arrivati alla fine del percorso purgatoriale di Dante che può finalmente ascendere alle stelle del Paradiso, puro e ben disposto. Siamo nel Paradiso terrestre, il luogo idilliaco dove Dio collocò i primi esseri viventi e il primo uomo e la prima donna; il luogo in cui campeggia l’albero della sapienza. È come un ricongiungersi simbolico alla prima radice umana. L’uomo paradigmatico, Dante, si ricollega alla prima matrice dell’uomo, Adamo, che per primo volle scoprire da sé il frutto della conoscenza.

  • È stato un percorso lento e faticoso, scandito da riti di purificazione, visioni, sogni, incontri affettuosi con gli amici.
  • Abbiamo seguito il poeta nello snodo centrale della sua opera e lo abbiamo visto indignarsi per la situazione italiana nel VI canto e poi meditare a lungo sulla natura dell’amore e del libero arbitrio nel centro dell’opera e del Purgatorio (canti XVI-XVII-XVIII).
  • Abbiamo visto la sacra processione sondarsi proprio in questi ultimi canti e poi Virgilio, amato padre putativo e maestro, sparire e lasciare il posto a Beatrice, la donna amata da Dante e sua guida teologica verso l’Amore divino (XXX). In quest’ultimo canto, tra i cori e le presenze femminili, insieme al mondo classico simboleggiato da Stazio, Dante comprende i limiti della sua scienza filosofica, così razionale, e comincia ad avvicinarsi ai misteri della fede e alla logica soprannaturale di Dio. Se vorrà capire qualcosa del Paradiso dovrà abbandonare i parametri del mondo terreno da cui adesso si sta staccando (il Purgatorio è infatti sulla terra). Deve fidarsi di Beatrice completamente, come un bimbo alla mamma. Nel canto precedente ha bevuto l’acqua del Lete, il fiume dell’oblio, e ha dimenticato le impressioni che il peccato ha segnato nella sua anima. Beve adesso l’acqua dell’Eunoè, scortato da Matelda e da Stazio: è l’acqua del pensiero buono, corretto, giusto… amoroso, potremmo dire. Questo ultimo rito di purificazione ha la stessa valenza dell’estrema unzione per i morti perché sarebbe il viatico per il passaggio sereno nell’aldilà. Beatrice sta conducendo il pellegrino a vedere le bellezze della beatitudine. Dante si sente leggero, sereno, come dalla sua infanzia (chissà) non si sentiva più. La selva oscura è solo un pallido ricordo. Sta per cominciare un nuovo appassionante capitolo della sua opera che culminerà con la Visio Dei nel finale della terza cantica.

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2Testo del Purgatorio XXXIII – il finale della cantica

"Deus, venerunt gentes", alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incominciaro, e lagrimando;
e Bëatrice, sospirosa e pia,
quelle ascoltava sì fatta, che poco
più a la croce si cambiò Maria
.  

Ma poi che l'altre vergini dier loco
a lei di dir, levata dritta in pè,
rispuose, colorata come foco:  

"Modicum, et non videbitis me;
et iterum, sorelle mie dilette,
modicum, et vos videbitis me
".
Poi le si mise innanzi tutte e sette,
e dopo sé, solo accennando, mosse  

me e la donna e 'l savio che ristette.  

Così sen giva; e non credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,
quando con li occhi li occhi mi percosse;
e con tranquillo aspetto "Vien più tosto",
mi disse, "tanto che, s'io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto
".  

Sì com'io fui, com'io dovëa, seco,
dissemi: "Frate, perché non t'attenti
a domandarmi omai venendo meco?
".
Come a color che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti,
avvenne a me, che sanza intero suono
incominciai: "Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch'ad essa è buono
".
Ed ella a me: "Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe
,  

sì che non parli più com'om che sogna.  

Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe,  

fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda  

che vendetta di Dio non teme suppe.  

Non sarà tutto tempo sanza reda  

l'aguglia che lasciò le penne al carro,  

per che divenne mostro e poscia preda;  

ch'io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque
,  

secure d'ogn'intoppo e d'ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,  

messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.
E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,  

perch'a lor modo lo 'ntelletto attuia;
ma tosto fier li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte  

sanza danno di pecore o di biade.  

Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a' vivi
del viver ch'è un correre a la morte
.
E aggi a mente, quando tu le scrivi,  

di non celar qual hai vista la pianta
ch'è or due volte dirubata quivi
.  

Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l'uso suo la creò santa.  

Per morder quella, in pena e in disio
cinquemilia anni e più l'anima prima
bramò colui che 'l morso in sé punio
.  

Dorme lo 'ngegno tuo, se non estima
per singular cagione esser eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.
E se stati non fossero acqua d'Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente
,  

e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa,
per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l'interdetto,
conosceresti a l'arbor moralmente.  

Ma perch'io veggio te ne lo 'ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t'abbaglia il lume del mio detto
,  

voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
che 'l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto".
E io: "Sì come cera da suggello,  

che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello
.  

Ma perché tanto sovra mia veduta
vostra parola disïata vola
,
che più la perde quanto più s'aiuta?".  

"Perché conoschi", disse, "quella scuola
c'hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola
;  

e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda  

da terra il ciel che più alto festina".
Ond'io rispuosi lei: "Non mi ricorda
ch'i' stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda
".  

"E se tu ricordar non te ne puoi",
sorridendo rispuose, "or ti rammenta
come bevesti di Letè ancoi;
e se dal fummo foco s'argomenta,  

cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta
.  

Veramente oramai saranno nude
le mie parole, quanto converrassi  

quelle scovrire a la tua vista rude".
E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,
quando s'affisser, sì come s'affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,  

le sette donne al fin d'un'ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l'alpe porta
.  

Dinanzi ad esse Eufratès e Tigri
veder mi parve uscir d'una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.
"O luce, o gloria de la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?".
Per cotal priego detto mi fu: "Priega
Matelda che 'l ti dica". E qui rispuose,
come fa chi da colpa si dislega,
la bella donna: "Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che l'acqua di Letè non gliel nascose
".  

E Bëatrice: "Forse maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt'ha la mente sua ne li occhi oscura.  

Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se' usa,
la tramortita sua virtù ravviva
".
Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;
così, poi che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: "Vien con lui".
S'io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere, i' pur cantere' in parte
lo dolce ber che mai non m'avrìa sazio;
ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l'arte.
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinnovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire alle stelle.  

3Parafrasi al canto XXXIII del Purgatorio

Illustrazione del canto 33 del Purgatorio
Fonte: getty-images

Le donne presero a cantare dolcemente, piangendo e alternandosi (prima le tre e poi le quattro), dicendo: «O dio, sono venuti i Gentili»; Beatrice le ascoltava, tra sospiri e lacrime, simile nell’aspetto a Maria ai piedi della croce. Ma dopo che le donne la lasciarono parlare, alzatasi in piedi, rispose infervorata: «Ancora un poco, e non mi vedrete più; e un altro poco, sorelle mie care, mi vedrete di nuovo». Poi le fece procedere davanti a sé, e con un cenno mi spinse a seguirla, insieme a Matelda e al saggio Stazio. Così camminava; e dubito avesse già mosso il decimo passo, quando mi guardò dritto negli occhi e serena mi disse: «Vieni più in fretta, così che tu possa ascoltarmi meglio». Quando le fui vicino, come aveva ordinato, mi disse: «Fratello, perché non mi rivolgi le tue domande mentre camminiamo?» Come accade a quelli che sono troppo intimiditi nel parlare davanti a un superiore, la loro voce esce insicura, così mi accadde e iniziai a mormorare: «Madonna, voi già sapete i miei desideri e ciò che fa loro bene». E lei a me: «Lìberati ormai da timore e vergogna, in modo da non farfugliare come un sognatore. Sappi che il vaso rotto dal serpente è come se non esistesse più; ma chi è colpevole di questo, saprà quanto la vendetta di Dio sarà inesorabile. L'aquila che ha lasciato le penne nel carro, per tale ragione divenuto un mostro e poi preda del gigante, non rimarrà sempre senza eredi; io lo vedo con certezza, e così lo racconto: è vicina una costellazione, senza ostacoli di sorta, che darà al mondo un'epoca in cui un cinquecento dieci e cinque (DXV), un inviato di Dio, ucciderà la ladra e quel gigante che con lei si accorda. Potrebbe darsi che il mio racconto sia oscuro come quello di Temi o della Sfinge, e non ti convinca molto, perché mette alla prova il tuo intelletto come loro usavano fare; ma presto le Naiadi sbroglieranno coi fatti il difficile enigma, senza recare danno a terre e animali. Tienilo a mente e riferisci queste parole, come io te le dico, a coloro che vivono sulla Terra rapidamente destinati alla morte. E ricordati, allorché le scriverai, di non tralasciare il modo in cui hai visto la pianta due volte spogliata. Chiunque saccheggi o offenda quella pianta, bestemmia in modo sacrilego Dio, che la creò sacra per un suo preciso disegno. Per aver mangiato i suoi frutti, il primo uomo (Adamo) attese nel desiderio e nella pena per più di cinquemila anni colui (Cristo) che riparò con la sua morte questo peccato. Il tuo intelletto vaneggia se non capisce che la pianta è così alta e capovolta sulla cima per una ragione unica. E se i pensieri stolti intorno alla tua mente non l'avessero indurita come accade per le acque del fiume Elsa, e se il compiacimento di quei pensieri vani non avesse offuscato il tuo intelletto come Piramo fece col gelso, solo così comprenderesti che la giustizia di Dio è il significato simbolico dell'albero, ossia per il divieto di morderlo. Ma dal momento che noto quanto il tuo intelletto sia come pietrificato e oscurato, e la luce delle mie parole ti abbaglia, voglio almeno che tu conservi un’immagine sommaria di ciò che ti ho detto, se non un ricordo preciso, come il pellegrino conserva una frasca di palma sul suo bastone». E io: «Il mio cervello è adesso segnato da voi come cera impressa dal sigillo, cosicché non muta la sua figura. Ma perché la vostra parola che io desidero afferrare vola tanto al di sopra della mia comprensione, che quanto più cerco di seguirla tanto meno riesco a capirla?» Rispose: «Accade affinché tu riconosca quella scuola di cui sei stato seguace e comprenda che la sua dottrina non basta a seguire le mie parole; e perché tu veda che la sapienza umana dista da quella divina tanto quanto la Terra è lontana dal Cielo che si muove più in alto». Allora le risposi: «Non ricordo di essermi mai allontanato da voi, né ho rimorsi di coscienza per questo». Lei rispose sorridendo: «E se non riesci a ricordartene, ricorda però come oggi hai bevuto l’acqua del Lete; e come il fumo è sicura prova del fuoco, il tuo oblio è la prova sicura della tua colpa, quando hai rivolto ad altri e non a me i tuoi interessi e il tuo studio. Tuttavia, da qui in poi le mie parole saranno più semplici, quanto sarà necessario perché il tuo rozzo ingegno possa comprenderle». E il sole intanto si era alzato più luminoso e in un tragitto più lento fino al meridiano, che cambia posizione secondo il mio sguardo, quando le sette donne, come suole fermarsi chi precede gli altri come guida se si imbatte in qualcosa di nuovo o nella sua traccia, si fermarono in una radura dall’ombra attenuata, come quella che si trova sotto le verdi foglie e i rami scuri in montagna accanto ai fiumi freddi. Davanti alle donne mi parve di vedere il Tigri e l'Eufrate sgorgare da un'unica fonte, e, come due amici, lentamente allontanarsi. «O luce, o gloria dell'umanità, che sono questi due fiumi nati da una stessa sorgente e che poi vanno separandosi l’uno dall’altro?» A tale domanda mi fu risposto: «Prega Matelda di spiegartelo». E a quel punto, la bella donna, come scusandosi di una colpa, rispose: «Io già spiegato a lui questa e altre cose; e sono sicura che l’acqua del Lete non ha inficiato il suo ricordo». E Beatrice: «Forse una più grande preoccupazione, che spesso rende privi della memoria, ha ottenebrato gli occhi della sua mente. Ma vedi l'Eunoè che laggiù nasce: portalo al fiume e, come fai di solito, ravviva la sua memoria indebolita». Come un'anima nobile che non prende scuse, ma fa propri i desideri degli altri non appena questi siano manifesti, in questo modo, presomi per mano, la bella donna si mosse e disse signorilmente a Stazio: «Vieni con lui». Se io, lettore, avessi più spazio per scrivere, descriverei almeno un poco il sapore dolce dell’acqua del fiume Eunoè di cui non mi sarei mai stancato; ma avendo ormai riempito tutte le carte predisposte per questa seconda Cantica, il freno dell'arte non mi consente di procedere oltre. Io mi allontanai dal fiume sacro completamente rinnovato, come le piante giovani rifioriscono e si coprono di nuove fronde, purificato e pronto per salire verso le stelle.

4Coordinate del canto XXXIII del Purgatorio

  • Luogo: foresta del paradiso terrestre, il fiume Lete, il fiume Eunoé.
  • Tempo: 13 aprile 1300 ore 12.00 (oppure 30 marzo)
  • Allegoria: “cinquecento diece e cinque” da riordinare in cifre romane, ossia D V X., in latino condottiero, comandante. Forse Dante si riferisce già ad Arrigo VII di Lussemburgo quale inviato da Dio per restaurare l’impero e la Chiesa. Esistono diverse altre interpretazioni, ma resta il fatto di una restaurazione del mondo alle condizioni volute da Dio.
  • Cose notevoli: l’allegoria del carro e le profezie sul destino della Chiesa e dell’Impero. Profezia di Beatrice. Purificazione di Dante.

5Sintesi narrativa del canto XXXIII del Purgatorio

5.1Vv. 1-12: Beatrice sospira

Finita la processione e viste le trasformazioni del carro e il suo rapimento da parte del gigante, le sette donne intonano piangendo il salmo Deus, venerunt gentes, e Beatrice, addolorata e pietosa, muta colore in volto quasi quanto Maria sotto la croce. Quando poi le donne le danno la possibilità di parlare, si infervora e dice solennemente: "Tra poco non mi vedrete, e poi di nuovo, dopo poco, mi vedrete".

5.2Vv. 13-51: Profezia di Beatrice

Beatrice fa muovere tutte e sette le donne davanti a lei, e si fa seguire da Dante, da Matelda e da Stazio. Invita Dante ad affrettarsi e a starle vicino per poterla ascoltare bene; lo esorta a non esitare e a porle tutte le domande che desidera: Dante risponde che domandare è superfluo, poiché ella sa già bene quel che lui vuole apprendere e quel che gli serve per apprendere. Beatrice gli spiega che dev’essere libero da timore e vergogna. Deve parlare apertamente.

Spiega inoltre che il carro danneggiato dal drago (la Chiesa) ebbe esistenza autentica e ora non l'ha più; ma chi ne è responsabile deve sapere che la giustizia divina non teme alcun ostacolo e arriverà presto. L’aquila che ha lasciato le penne sul carro (l'impero), e ne ha provocato la trasformazione in mostro e il rapimento da parte del gigante, non rimarrà per sempre senza eredi; già è vicino un momento favorevole del cielo, nel quale un inviato da Dio ucciderà la meretrice insieme con il gigante: questo per Dante è ora un enigma incomprensibile, ma i fatti lo renderanno chiaro assai presto.

5.3Vv. 52-78: la missione di Dante e le parole oscure di Beatrice

Dante e Beatrice
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Beatrice dice a Dante di prendere nota delle sue parole e le riporti ai vivi nel mondo terreno e non taccia di dire tutto ciò che ha visto dell'albero che è stato due volte spogliato. Chiunque deruba quell’albero offende Dio che lo creo solo per sé; esso e l'albero del bene e del male, per aver morso il frutto del quale Adamo penò più di cinquemila anni prima che Cristo lo redimesse. Dunque se non comprende che l'albero è così alto e capovolto in quel modo per una ragione speciale, vuol dire che il suo intelletto dorme e che è stato incrostato o abbagliato da falsità (similitudine con acqua d’Elsa e sangue di Piramo). Ma poi ché ella vede che il suo intelletto è indurito e oscurato, cosicché la luce delle parole di lei lo abbaglia, vuole che Dante porti con sé almeno un'immagine del suo discorso, come si porta il bastone ornato con la palma in ricordo del pellegrinaggio.

5.4Vv. 79-102: l’insufficienza dottrinale di Dante

Il suo intelletto, risponde Dante, è segnato dalle parole di Beatrice come la cera porta l'impronta del sigillo; ma queste parole vanno al di là della sua comprensione. Perché? Risponde Beatrice che questo accade per far sì che egli si renda conto di quanto poco la scienza umana sia in grado di seguire le parole della scienza divina, e comprenda che la scienza divina dista da quella umana quanto dista dalla terra il Primo Mobile. Dante dice allora di non ricordarsi di essersi mai allontanato da Beatrice, e di non sentire rimorso per un fatto del genere: ciò avviene, risponde Beatrice, perché egli ha bevuto l'acqua del Lete, e, come il fumo è segno del fuoco, questa stessa dimenticanza è segno dell’esistenza della sua colpa. D'ora in poi ella gli parlerà in modo più semplice e diretto.

5.5Vv. 103-135: Matelda conduce Dante e Stazio a bere l’acqua dell’Eunoè

Intanto è mezzogiorno; le sette donne si fermano dove l’ombra al margine della foresta è divenuta simile a quella che si stende sui fiumi di montagna sotto fronde verdi e rami scuri. Davanti alle donne pare a Dante di veder uscire l'Eufrate e il Tigri da una stessa sorgente, e separarsi lentamente fra loro.

Chiede a Beatrice di quali fiumi si tratti. Matelda, incaricata da Beatrice, afferma, come per discolparsi, di averglielo già spiegato, e di non credere che l'acqua del Lete glielo abbia potuto far dimenticare. Forse, dice Beatrice, Dante se ne è dimenticato perché altre cose più pressanti hanno distolto la sua attenzione; ma ecco Eunoè che esce dalla sorgente. Beatrice ordina a Matelda di condurre Dante ad esso e di fargli bere l'acqua che ravvivi in lui la memoria del bene. Sollecitamente, con nobile grazia, Matelda prende per mano Dante, e invita anche Stazio a seguirli.

5.6Vv. 136-145: Dante puro e disposto a salire alle stelle

Dante racconterebbe la dolcezza che gli dette il bere quell’acqua, di cui non si sarebbe mai saziato; ma ormai ha scritto tutto quanto richiedeva la struttura della seconda cantica, e il senso delle proporzioni artistiche non gli permette di andare oltre. Dice solo che ritornò indietro dall'Eunoè rinnovato come una pianta rivestita di nuove fronde a primavera, puro e pronto a salire alle stelle.

6Personaggi del canto XXXIII del Purgatorio

6.1Beatrice

Beatrice Portinari
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Bisognerebbe scrivere una tesi di laurea per descrivere la funzione di Beatrice per Dante e nella Commedia in particolare. Al di là dell’identificazione storica con Bice di Folco Portinari, grazie ai pochi dettagli inseriti nella Vita Nova, questa donna rappresenta la musa poetica e spirituale di Dante che la cerca proprio a partire dalla sua morte, con il rischio di smarrirla dal suo cuore e dalla sua mente.

Beatrice compare a Dante nel XXX canto del Purgatorio, ma nell’opera era già stata a lungo nominata: lei, infatti, era scesa da Virgilio per implorarlo di soccorrere il suo amico e di condurlo fino a lei. Con lei Dante arriverà fino al XXXI del Paradiso alle soglie della visione finale quando si congederà dal poeta con un enigmatico (e affettuoso) sorriso.

La funzione di Beatrice nella terza Cantica è speculare rispetto a quella di Virgilio nelle prime due, sarà cioè di guida e maestra di Dante. Tuttavia se Virgilio rappresentava la figura paterna e il mentore poetico, Beatrice sarà donna, o madonna, termine carico di significati stilnovisti, che ha intelletto d’amore, pura e beata, ricordando quanto scritto nella Vita Nuova. Beatrice avrà spesso nei confronti del discepolo un atteggiamento severo e rappresenta lo scontro tra la razionalità ottusa di Dante e la grazia illuminante della fede.

6.2Matelda

Matilde di Canossa
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Il nome di questo personaggio compare una sola volta proprio in questo canto (Purg. XXXIII, 119). Per tale ragione la figura di Matelda è un rebus e non è chiara né la funzione allegorica né l’identificazione storica del personaggio. Sono state fatte svariate ipotesi in proposito: alcuni la identificano con la contessa Matilde di Canossa, altri con la monaca benedettina autrice di libri spirituali Matilde di Hacehnborn (morta nel 1298), altri ancora con Matilde di Magdeburgo (anch’essa autrice di opere ascetiche). Non sono poi mancate suggestioni dalla Vita Nuova per i continui echi stilnovisti nella sua descrizione e per le sue caratteristiche di «donna gentile».

È probabile che Matelda sia una figura solo allegorica e funzionale alla narrazione: è suo il compito di immerge le anime purificate nelle acque del Lete. In questo senso, Matelda potrebbe rappresentare la felicità primigenia dell’uomo antecedente al peccato originale, che i purganti hanno faticosamente riconquistato dopo le sette cornici purgatoriali.

Un accostamento è poi possibile, se non necessario, con il personaggio biblico di Lia protagonista del sogno di Dante (Purg. XXVII, 94-108) e allegoria della vita attiva (propensa al bene e non accidiosa). Simile è infatti la descrizione dei due personaggi: giovani, belle, cantano, colgono fiori.  La vita attiva, è infatti necessaria per perfezionare le virtù cardinali e raggiungere la felicità terrena simboleggiata dal Paradiso Terrestre, ma le due interpretazioni potrebbero coesistere. Sembra invece solo poetico l’accostamento di Matelda a Proserpina in Purgatorio XXVIII.

6.3Publio Papinio Stazio

Stazio è un poeta latino vissuto nell'età dei Flavi (45-96 d.C.). Nativo di Napoli, figlio di un grammatico e maestro di retorica, giunse a Roma ancora molto giovane e si mette in luce nelle gare poetiche tipiche di quel tempo conquistandosi un posto di rilievo nel panorama letterario romano. Dopo alcune amarezze, tornò a Napoli nell’ultima stagione della sua vita, dove morì. 

Stazio è un poeta epico e la sua opera principale è la Tebaide, ispirata all’Eneide di Virgilio. Iniziò anche un altro poema, l’Achilleide, ma l'opera restò incompiuta a causa della morte. Le sue liriche sono invece raccolte nelle Silvae, cinque libri di liriche d'occasione composte in metro vario. Stazio ebbe largo successo nel Medioevo e la capillare diffusione della Tebaide spiega la fioritura delle «storie tebane» in Francia, Inghilterra (si pensi a Chaucer) e Italia (Boccaccio). 

Dante lo introduce nel XXI del Purgatorio, fra i penitenti che scontano il peccato di prodigalità nella quinta Cornice, nel momento in cui ha cessato di espiare la pena: un forte terremoto scuote tutto il monte e le anime dei penitenti intonano a una voce il Gloria. All'inizio del XXI è Stazio a presentarsi a Dante e Virgilio, senza rivelare dapprima il proprio nome e spiegando la ragione del terremoto, segno del passaggio dal Purgatorio al Paradiso. 

Dopo la venuta di Beatrice e la scomparsa di Virgilio, Stazio assisterà insieme a Dante alla lunga processione simbolica (XXXII), quindi, come abbiamo visto, accompagnerà Dante nelle acque dell’Eunoè (XXXIIII) per il rito che precederà la sua ascesa in Paradiso insieme a Beatrice.

Attraverso questo personaggio Dante compie un ampio elogio della poesia e della sua altissima funzione civile e spirituale: Stazio è divenuto poeta grazie all'esempio di Virgilio (un po’ come Dante in fondo). Leggendo le sue opere, si è dapprima pentito dei suoi peccati e in seguito convertito al Cristianesimo, quindi la poesia è stata per lui fonte di salvezza.

7«Un cinquecento diece e cinque»: la profezia di Beatrice e l’identità del DVX

Non può mancare una profezia. Se la profezia del veltro spettò a Virgilio, quella del DVX spetta a Beatrice. Dante dice: colui che è un cinquecento, dieci e cinque. La combinazione di questi numeri secondo la scrittura dei Romani è: D - X - V. Anagrammati danno la parola DVX, in latino duce, comandante. E se fossero iniziali di tre parole con un acrostico? Allora possiamo avere: Domini Xristi Vertagus (Veltro di Cristo); Domini Xristi Vicarius (Vicario di Cristo); Dante Xristi Vertagus (Dante veltro di Cristo). Naturalmente non lo sappiamo con certezza e gli storici della letteratura e i filologi hanno dibattuto a lungo sulla questione che è in fondo lo stesso problema della profezia del Veltro nel I canto dell’opera

È molto probabile che Dante si rivolgesse idealmente a un erede imperiale, forse proprio ad Arrigo VII, il quale aveva acceso di speranza i cuori ghibellini e non solo (e per Foscolo Dante era il “ghibellin fuggiasco”), per poi deluderli a causa delle sue sconfitte. Di sicuro è un uomo dell’impero. In ogni caso Dante sa che prima o poi qualcosa accadrà perché provvidenzialmente tutta la storia dovrà entrare in Dio e Beatrice sostiene questo punto proprio nel canto. 

Come ricorda Umberto Bosco Dante non voleva tanto «esprimere la sua fiducia in un determinato uomo (nel canto del resto non nominato) quanto esprimere la sua certezza nell’intervento divino; e questa convinzione permaneva anche dopo il fallimento e la morte di Enrico». 

8Analisi del canto XXXIII del Purgatorio

Dal XXVIII al XXXIII canto del Purgatorio ci troviamo davanti a una sequenza compatta e organica e autonoma che in confronto a tutti gli altri canti del Purgatorio «sembrano perdere gran parte di quella loro individualità spiccata e staccata che suole contraddistinguere ciascuno dei ternari della Commedia» (Cian).

L’ambientazione è quella della foresta del Paradiso terrestre con i suoi due limpidi fiumi paragonati al Tigri e all’Eufrate che sono poi il Lete e l’Eunoè. Molti dantisti hanno notato subito l’importanza di questo episodio e lo hanno addirittura accostato a quella mirabile visione annunciata nella Vita Nuova.

Si tratta di una forzatura, forse, perché in questo canto vediamo invece la consistente maturità poetica e politica di Dante che forse aveva in qualche modo anticipato per via simbolica i concetti fondamentali della Monarchia, sua opera dedicata alla politica, nonché al ruolo di ciascuno nell’operare al bene comune. Afferma ancora Cian:

«È innegabile, infatti, che in questi ultimi canti del Purgatorio si appunta intensamente e culmina quel triplice pensiero religioso, politico e morale che, più o meno visibilmente, circola per tutto quanto il poema, e a quando a quando erompe in affermazioni solenni e in improvvisi e misteriosi lampeggiamenti profetici che vanno da quello del Veltro sino ai vaticini di San Pietro e di Beatrice»

Ci troviamo allora davanti al punto in cui tutte queste immagini e tutti i pensieri che le sorreggono diventano una cosa sola formando una profezia di centrale importanza e anche per questo motivo, come sottolinea sempre Cian, è anche la più appariscente e sonora. Infatti il canto si apre proprio con la musica corale, aspetto che contraddistingue il Purgatorio e che anticipa i cori dei beati del Paradiso. È un commento drammatico perché si sono appena viste le tristi vicende della lotta al potere della Chiesa e dell’Impero esemplate nell’allegoria della processione (XXIX canto).

Dante, Virgilio e Stazio nella foresta del Paradiso terrestre
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Le sette vergini, che sono le virtù teologali e cardinali insieme, anticipano la profezia di Beatrice prima assimilata alla Vergine Maria ai piedi della croce e poi infervorata dalla rabbia del giusto, come sarà San Pietro nel XXVII del Paradiso.

Dante cita spesso il Vangelo di Giovanni e l’Apocalisse perché questi passi sono contraddistinti da un forte senso di presagio e di rivelazione ultima dell’eternità nella storia.

Come sappiamo, in quest’opera così affascinante, Dante fonde la storia e l’eternità e quindi la profezia è il punto di contatto tra queste due linee temporali. Infatti nel tempo dell’eternità tutto è già avvenuto; ma è il tempo storico a farsi attendere. E Dante aspettava con trepidazione quel DUX che per lui è Arrigo VII, l’unico a suo modo capace di ristabilire gli equilibri tra Chiesa e Impero. Tutto il canto muove e si snoda con lentezza e solennità assecondando i diversi momenti narrativi e gli stati d’animo dei personaggi in un affresco mobile, che oscilla tra l’umano e il divino, proprio come la storia che deve compiersi e quella, come afferma Beatrice, già compiuta nel pensiero di Dio.

La speranza è come un moto nostalgico e le atmosfere disegnata da Dante in questo canto fanno in modo che col pensiero si ritorni alla Vita Nuova, il periodo delle grandi scoperte dell’amore, degli innamoramenti, dei rapimenti mistici e del suo primo scoprirsi poeta e cantore di Beatrice. C’è quindi una profonda consonanza spirituale con la mirabile visione di Beatrice innalzata oltre le sfere. Con lei si invola anche la poesia di Dante e la sua indomita fantasia in uno stesso ambiente: l’ascesa celeste del poeta e della donna insieme, che avverrà appena nominate le stelle all’ultimo verso della cantica.