Canto XXXIII del Paradiso: testo, parafrasi e figure retoriche
Indice
1Canto 33 del Paradiso: trama e struttura
L’azione del Canto 33 del Paradiso si svolge nell'Empireo dove Dante, successivamente all'invocazione alla Vergine compiuta da san Bernardo, ha finalmente accesso alla visione di Dio. Il Canto XXXIII si apre con una lunga preghiera recitata da san Bernardo che chiede alla Vergine di intercedere per Dante, concedendogli di lasciarlo godere della sublime visione di Dio.
Dopo aver invocato la Madre di Dio tessendone le lodi, l'anima beata di san Bernardo presenta il poeta al suo fianco: Dante è un viaggiatore che per volere divino si è innalzato dalla putrida palude infernale fino ai cieli del Paradiso e che ora, grazie alla sua intercessione può concludere il suo viaggio salvifico con la visione finale. Ed è proprio questa necessità di Dante che fa domandare a san Bernardo, con una preghiera cui si unisce tutta la rosa dei beati e Beatrice, l'intercessione mariana con più desiderio di come l'avrebbe chiesta per sé stesso, pregandola inoltre di conservare intatti i sentimenti del poeta mortale dopo una simile visione.
La Vergine non risponde esplicitamente alla richiesta di Bernardo, ma prima lo guarda negli occhi e poi si rivolge verso la luce di Dio, a questo punto anche san Bernardo si rivolge verso il poeta e, con un sorriso ed un cenno, gli fa segno di guardare in alto. Dante, seguendo i consigli della sua guida, rivolge quindi lo sguardo in su verso la luce divina e, guardando quella, la sua vista diventa via via più chiara e acuta più si addentra in quella visione che la parola umana è incapace di descrivere. Ciò che rimane nella memoria del poeta è come l’impressione di un sogno che si è però dimenticato dopo il risveglio.
A questo punto il Dante/autore invoca l’aiuto dell’Onnipotente affinché permetta al suo intelletto di ricordare e descrivere anche solo una minima parte di quanto visto, perché anche una singola scintilla di quella visione ha il potere di comunicare ai posteri la grandezza di Dio. Il Dante/protagonista allora fissa il suo sguardo nella luce divina, potentissima che, contrariamente alla luce normale, gli ferirebbe la vista se distogliesse gli occhi. Più il suo sguardo rimane fisso nella luce divina, più egli è in grado di leggere in quella luce e di vedere i misteri dell’infinito.
Nella mente divina il poeta vede come gli elementi dell’Universo siano legati tra di loro costituendo un unico ed armonico insieme di tutte le cose, come un libro che raccoglie in sé tutte le pagine di cui è composto il creato: un ricordo capace di suscitare gioia nello scrittore che racconta ciò che ha visto tanto tempo prima. Con gli occhi fissi nella visione, il Dante/viaggiatore continua a vedere sempre più chiaramente nella mente di Dio, dove tutto è perfetto, ammirando cose che sono impossibili da dire a parole.
La capacità di vedere cambia il poeta nello spirito, dandogli la capacità di comprendere con maggiore consapevolezza i misteri divini. Nella luce inizia a distinguere tre cerchi delle stesse dimensioni, ma di colori diversi. Il secondo sembra il riflesso del primo, come fossero due arcobaleni concentrici, il terzo è come una fiamma che avvolge entrambi i cerchi: ciò che qui viene descritta, è la rappresentazione della Trinità, cioè della potenza di Dio che arde d’amore e che si comprende in sé stessa.
Nel secondo cerchio, che sembra un riflesso del primo, e che metaforicamente rappresenta il Figlio di Dio, il poeta scorge il mistero dell’incarnazione, scorgendo al suo interno una figura umana del suo stesso colore del cerchio eppure visibile. Dante si trova così di fronte al mistero dell’incarnazione di Cristo e della Trinità, razionalmente inconoscibile, come lo è per il matematico il rapporto tra il quadrato e il cerchio.
E la sua sete di conoscenza finale può essere appagata solo da un lampo, un rapimento mistico che sovrasta la sua forza immaginativa e che non può descrivere. Ma, alla fine di essa, sente che la sua mente si muove in armonia, governata dalla volontà di Dio.
Il Canto può essere quindi distinto in sei momenti:
- Vv. 1-39: L’invocazione alla Vergine di san Bernardo.
- Vv. 40-66: Intercessione della Vergine e inizio della visione divina.
- Vv. 67-108: Invocazione di Dante a Dio e visione dell’Unità dell’Universo.
- Vv. 109-126: Dante vede i tre cerchi, metafora del mistero trinitario.
- Vv. 127-138: Dante vede una figura umana nel secondo cerchio, metafora dell’incarnazione divina.
- Vv. 139.145: Estasi mistica di Dante.
2Canto 33 del Paradiso, la fine del viaggio: l'invocazione e la visione
Al netto dei singoli momenti che scandiscono la narrazione, il Canto XXXIII si costituisce di due grandi parti: l’iniziale invocazione alla Vergine e la visione di Dio. Dante lascia a san Bernardo il compito di pronunciare una preghiera indirizzata a Maria per chiederle di favorire l’accesso alla visione finale del viaggiatore mortale, una visione che non sarebbe possibile se questi avesse ancora gli occhi ingombri delle nubi causate dal dubbio e dal raziocinio che gli impedirebbero di penetrare dubbi così profondi; inoltre, san Bernardo chiede alla Vergine di preservare intatti la mente e i sentimenti di Dante, dopo una visione così travolgente.
La preghiera di san Bernardo ricalca nella struttura quella dell’Ave Maria, ma si discosta nettamente da essa arricchendola con richiami ad altri inni sacri come il Gloria, il Te Deum e il Salve, Regina.
Inizia con una lode alla Vergine, le cui virtù vengono descritte ai vv. 2-3 con una serie di antinomie che richiamano ai dogmi dottrinali, per cui Maria diventa ‘figlia’ del suo stesso figlio (in ossequio al dogma trinitario per cui il Cristo è fatto della stessa sostanza del Padre, e viene così generato da quella Maria che è a sua volta creata da Dio) e ‘umile e alta’ allo stesso tempo, più di qualunque altra creatura. Il suo ruolo viene poi richiamato ai vv. 7-9, dove si dice che nel suo ventre si è rinnovato il patto tra Dio e l’Uomo, un fuoco d’amore che ha fatto poi germogliare la rosa dei beati che orna il Cielo Empireo.
Questa prima parte del Canto, che anticipa la richiesta che il santo sta per fare per favorire Dante, è quella che, a livello retorico, prepara la seconda parte del Canto, quella in assoluto più solenne.
2.1Dante e la visione di Dio
Il Canto I del Paradiso, che ha naturalmente una sorta di funzione proemiale rispetto all’intera Cantica, si apre con una serie di reiterazioni tramite le quali il poeta comunica che quanto sta per raccontare in questa terza ed ultima parte del suo viaggio è difficile da esprimere a parole, attraverso il filtro della razionalità, com’è difficile ripetere ciò che si vede salendo al cielo (cfr Par I, 5-6) o raccontare l’esperienza del superamento della condizione umana (cfr. Par. I, 70-71 ‘Trasumanar significar per verba / non si poria’).
Il Paradiso è senz’altro il luogo più misterioso attraversato dal Dante/viaggiatore perché, abbandonati luoghi dove ancora lo corporeità era la misura delle pene o della penitenza delle anime, egli si addentra in un ambiente dove le anime diventate completamente eteree; nel Paradiso Dante si addentra nei misteri della Fede fino ad un punto in cui la ragione, pur supportata dalla sapienza della Teologia, non riesce ad arrivare: le ultime verità, infatti, sono conoscibili solo tramite l’intuizione e l’estasi mistica. Il tema dell’inconoscibilità pervade infatti tutta la seconda parte del Canto in cui, dopo aver ottenuto il tacito assenso della Vergine, Dante fissa il suo sguardo in alto e comincia a guardare nell’Infinito divino.
Dopo aver visto come tutti gli elementi del creato, apparentemente disconnessi, siano in realtà tutti intimamente collegati tra loro (vv. 86-89) arriva ad approcciarsi ai più mistici misteri della dottrina cristiana: il mistero trinitario e a quello dell’Incarnazione di Cristo, il narratore ripete il tema della scarsità delle sue parole di fronte alla grandiosa visione che pure vorrebbe descrivere.
Egli, infatti, dapprima vede tre cerchi di eguale misura e diversi colori: il secondo sembra un riflesso del primo (a simboleggiare la contemporanea differenza ed unità tra il Padre ed il Figlio) mentre il terzo li avvolge entrambi come fosse una sorta di fiamma (simbolo dello Spirito Santo). Poi scorge una figura umana nel secondo cerchio, visibile nonostante sia dello stesso colore del cerchio stesso e, mentre cerca di capire quello che vede viene rapito da un’estasi mistica che dura un tempo indefinito e che non può descrivere, se non per il fatto che sente che ormai la sua mente è governata dal volere divino.
L’impossibilità di narrare a parole è intimamente connessa con l’uso della parola come esercizio intellettuale, che necessita quindi del filtro della razionalità per essere affrontato. La ripetizione di questo tema sottolinea ed esalta la difficoltà dello sforzo che il Dante/narratore si sta accingendo a compiere, e della sostanziale incomunicabilità del segreto divino, che può essere conosciuto solo tramite l’intuizione sostenuta dalla Teologia, che poi è il valore allegorico che è sempre stato attribuito alla figura di san Bernardo, ultima guida del poeta nel suo viaggio ultraterreno.
3Testo e parafrasi del Canto 33 del Paradiso
Testo
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,
tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che 'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l'amore,
per lo cui caldo ne l'etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se' a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ' mortali,
se' di speranza fontana vivace.
Donna, se' tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz'ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s'aduna
quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da l'infima lacuna
de l'universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l'ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch'i' fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co' prieghi tuoi,
sì che 'l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».
Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l'orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a l'etterno lume s'addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s'invii
per creatura l'occhio tanto chiaro.
E io ch'al fine di tutt' i disii
appropinquava, sì com' io dovea,
l'ardor del desiderio in me finii.
Bernardo m'accennava, e sorridea,
perch' io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:
ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l'alta luce che da sé è vera.
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che 'l parlar mostra, ch'a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
Qual è colüi che sognando vede,
che dopo 'l sogno la passione impressa
rimane, e l'altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
O somma luce che tanto ti levi
da' concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch'una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.
Io credo, per l'acume ch'io soffersi
del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E' mi ricorda ch'io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch'i' giunsi
l'aspetto mio col valore infinito.
Oh abbondante grazia ond' io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s'interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l'universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch'i' dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
credo ch'i' vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch'i' godo.
Un punto solo m'è maggior letargo
che venticinque secoli a la 'mpresa
che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo.
Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che 'l ben, ch'è del volere obietto,
tutto s'accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch'è lì perfetto.
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
Non perché più ch'un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch'io mirava,
che tal è sempre qual s'era davante;
ma per la vista che s'avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom' io, a me si travagliava.
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l'alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d'una contenenza;
e l'un da l'altro come iri da iri
parea reflesso, e 'l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi,
è tanto, che non basta a dicer 'poco'.
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t'intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che 'l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è 'l geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond' elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l'alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e 'l velle,
sì come rota ch'igualmente è mossa,
l'amor che move il sole e l'altre stelle.
Parafrasi
più umile e nobile di qualunque altra creatura,
fine stabilito della Provvidenza,
tu sei colei che la natura umana
hai nobilitato al punto che, il suo Creatore
non ebbe spregio di farsi suo creato.
Nel tuo ventre si riaccese la fiamma d’amore tra Dio e l’uomo,
il cui calore nel Paradiso
ha fatto germogliare questo fiore.
Qui per noi sei carità splendente
come il sole di mezzogiorno, e giù, tra i mortli,
sei una vivace fontana di speranza.
Oh Donna, sei tanto grandi e tanto è grande il tuo valore,
che chi desidera la Grazia e non si rivolge a te
è destinato a non vedere esaudito il suo desiderio.
La tua benevolenza non va solo in soccorso
a chi la chiede, ma spesso
spontaneamente anticipa la richiesta.
In te c’è la misericordia, la pietà,
la magnificenza, in te s’adunano
tutto ciò che c’è di buono nel creato.
Adesso costui, che dalla fossa più infame
dell’universo fino a qui ha visto
le anime una ad una,
ti supplica, per la tua grazia, per la tua grande
virtù, di poter levare gli occhi
in alto verso l’estrema salvezza.
E io, che non ho mai desiderato questa visione
più di quanto non la desideri per lui, tutte le mie preghiere
ti dedico, e prego che non siano insufficienti,
perché tu lo sciolga da ogni legame
mortale con le tue preghiere,
in modo che la grande beatitudine gli appaia.
Ti prego di nuovo, oh Regina, che puoi fare
ciò che vuoi, di mantenere sana,
dopo una simile visione, la sua ragione.
La tua protezione lo protegga dalle passioni umane:
guarda insieme a quanti beati Beatrice
chiudono le mani per rafforzare le mie preghiere!».
Quegli occhi amati e venerati da Dio,
erano fissi nell’oratore, dimostrarono
quanto gradite le sono le devote preghiere;
e poi si diressero verso la luce eterna,
nella quale non si deve credere che altra creatura
possa guardare altrettanto chiaramente.
E io che mi avvicinavo al
fine ultimo di tutti i desideri, così come dovevo,
esaurii in me stesso il fuoco del mio desiderio.
Bernardo mi faceva cenno, e sorrideva,
per dirmi di guardare su; ma io
mi ero già rivolto in su spontaneamente:
e la mia vista, diventava sempre più limpida,
più penetrava con lo sguardo quella luce
che è vera di per sé stessa.
Da qui in poi la mia vista vide in modo sempre migliore
da rendere difficile descrivere a parole, insufficienti per una simile visione, che anche la memoria fatica a ricordare.
Così come colui che vede qualcosa in sogno,
e dopo il sogno un sentimento rimane
impresso, ma l’immagine non torna alla mente,
così sono io, poiché quasi completamente è svanita
la mia visione, ma ancora stilla
nel mio cuore la dolce impressione che nacque da essa.
Come disgela la neve al sole;
come al vento nelle foglie leggere
si perdevano le profezie della Sibilla.
Oh luce infinita che così tanto t’innalzi
sulla ragione dei mortali, alla mia mente
fai ritornare un barlume di come mi apparisti,
e rendi la mia lingua così forte,
che anche una sola scintilla della tua gloria
possa lasciare ai posteri;
poiché, se qualcosa tornerà alla mia mente
ed un po’ ne risuonerà in questi versi,
meglio si comprenderà la tua vittoria.
Credo, per l’intensità con cui fui colpito
da quella luce, che mi sarei smarrito,
se avessi distolto gli occhi da essa.
E ricordo che per questo motivo fui più
ardito nel guardare, tanto che
infusi il mio sguardo in quell'infinito.
Oh, l'infinita grazia per cui io ardii
di penetrare il mio sguardo nella luce eterna,
tanto che vi consumai la vista!
Vidi che in quella profondità è contenuto,
rilegato con amore in un unico libro,
ciò che nell'Universo appare disperso:
le diverse sostanze, gli eventi ed il loro legame,
fusi insieme, in un modo che
come la mia descrizione ne è un semplice barlume.
La forma in cui tutto l'Universo si annoda
credo di aver visto, perché più generosamente
ne parlo, più mi sento felice.
Un solo momento di questa visione mi causa una dimenticanza
più grande dei venticinque secoli di quell'impresa
che fece ammirare a Nettuno l'ombra della nave Argo.
Così la mia mente, in estasi,
guardava ferma, immobile e rapita,
e più guardava e più voleva guardare.
Per quella luce si diventa tali,
che distogliersi da lei per guardare altro
è impossibile desiderarlo;
perché il bene, che è obiettivo della volontà,
si racchiude tutto in quella luce, e al suo esterno
diventa difettoso ciò che in essa è perfetto.
Da adesso il mio parlare sarà inadeguato,
per i miei ricordi, come il parlare di un bambino
che ancora succhia il latte della madre.
Non perché ci fosse un solo aspetto
nella luce che guardavo,
che è sempre uguale a sé stessa eternamente;
ma perché la mia vista diventava più profonda
più io guardavo, e quella immagine vedevo
in maniera diversa con il mutare del mio animo.
In quella profonda e luminosa essenza
in quella luce mi apparvero tre cerchi
di tre colori diversi e della stessa dimensione;
il primo ed il secondo sembravano l'uno il riflesso
dell'altro come arcobaleni concentrici, mentre il terzo pareva un fuoco che avvolgeva e pervadeva i primi due.
Oh, quanto è scarso e sbiadito il mio linguaggio
rispetto al mio ricordo! E questo, rispetto a ciò che vidi,
è tanto, ma lo descrive assai poco.
Oh luce eterna che risiedi in te stessa,
da sola ti intendi, e da te stessa intesa
mentre t'intendi ti ami e gioisci di carità!
Quel cerchio che sembrava concepito
come fosse una luce riflessa,
e siccome i miei occhi la guardavano attentamente,
al suo interno, e dello stesso colore,
mi sembrò esserci dipinta un'immagine umana:
perciò il mio sguardo era tutto fisso in lei.
Come il matematico che s'affatica
per misurare la circonferenza, senza trovare,
pensando, quel raggio che egli cerca,
così ero io a quella nuova vista:
volevo vedere come poteva adattarsi
l'immagine umana a quella del cerchio e come potesse trovarvi luogo;
ma non fui in grado di capirlo:
ed ecco che la mia mente fu colpita
da un lampo che esaudì la sua voglia.
Alla mia immaginazione venne meno la forza;
ma già governava il mio desiderio e la mia volontà,
come una ruota ch'è mossa in modo regolare,
quell'Amore che governa il sole e tutte le stelle.
4Figure retoriche del Canto XXXIII del Paradiso
- Vv. 1-2, figlia … creatura: Il ritratto evocativo della Vergine si costituisce attraverso l’uso della figura retorica delle antitesi, in cui vengono accostati termini dai significati contrastanti.
- V. 8, etterna pace: è parafrasi per intendere il Paradiso.
- V. 12, speranza … vivace: metafora in cui la generosità con cui la Vergine dispensa carità tra i mortali è paragonata ad una fontana.
- V. 15, volar sanz’ali: metafora secondo cui il desiderio necessita di ali per essere soddisfatto.
- V. 22, infima lacuna: perifrasi per indicare l’Inferno.
- V. 25, supplica a te: si tratta di un latinismo nel senso che il verbo ha una costruzione alla latina, cioè regge il dativo ‘a te’.
- V. 27, l’ultima salute: perifrasi per indicare Dio.
- V. 33, sommo piacer: perifrasi per indicare la visione di Dio.
- V. 40, Li occhi … Dio: perifrasi per indicare lo sguardo di Maria.
- V. 43, l’etterno lume: perifrasi per indicare Dio.
- V. 46, fine … disii: perifrasi per indicare Dio.
- V. 67, somma luce: perifrasi per indicare Dio.
- V. 72, futura gente: perifrasi per indicare tutti coloro che leggeranno il poema di Dante dopo la sua morte.
- V. 78, aversi: latinismo ricavato dal verbo latino ‘avertere’ cioè ‘distaccare’.
- Vv. 86-87, legato … squaderna: metafora in cui Dante descrive di aver visto come tutte le componenti dell'Universo, che all'occhio umano sembrano autonome e disgiunte, nella visione divina gli sono invece apparse unite, come un libro in cui sono rilegate tutte le pagine.
- V. 89, conflati: latinismo derivato da 'conflare' che in latino significa, appunto, 'fusione'.
- V. 135, indige: latinismo derivato da 'indegere' che in latino significa 'aver bisogno di' qualcosa.