Canto XXXIII Inferno di Dante: testo, parafrasi e figure retoriche
Indice
- Canto 33 Inferno di Dante
- Introduzione al Canto XXXIII dell’Inferno
- Inferno, Canto XXXIII: il conte Ugolino e gli altri personaggi
- Canto XXXIII Inferno: sintesi narrativa
- Analisi del Canto XXXIII dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
- Parafrasi del canto XXXIII dell’Inferno
- Figure retoriche nel Canto XXXIII dell’Inferno
- Ascolta l'audio lezione sul canto 33 dell'Inferno
- Guarda il video: spiegazione e analisi del Canto 33 dell'Inferno di Dante
- Concetti chiave
1Canto 33 Inferno di Dante
«La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto».
Inizia così uno dei canti più celebri dell'Inferno della Commedia di Dante Alighieri. Il canto XXXIII si apre con un'immagine bestiale di un uomo, il Conte Ugolino, intendo a divorare la testa di un altro dannato, l'arcivescovo Ruggieri. Nel canto Dante, descrive il doppio volto del Conte Ugolino: uomo politico feroce, brutale e traditore politico, ma anche quello di padre di famiglia, uomo addolorato per causato morte e sofferenze per figli e nipoti.
2Introduzione al Canto XXXIII dell’Inferno
Il Canto XXXIII dell’Inferno è il più lungo della prima cantica della Divina Commedia: si presenta come una continuazione del precedente, il Canto XXXII, al termine del quale Dante e Virgilio avevano scorto un’anima, immersa nel Cocito, intenta a rodere la testa di un altro dannato e gli avevano domandato il motivo di quel suo gesto.
La vicenda del Canto 33 si svolge in due delle quattro zone del nono Cerchio:
- l’Antenòra, che punisce i traditori della patria o del partito e che fa da sfondo al tragico racconto del conte Ugolino (vedi paragrafo 2.1)
- la Tolomea, che punisce i traditori degli ospiti e degli amici, e all’interno della quale Dante si ritrova a parlare con frate Alberigo.
Il Canto XXXIII dell’Inferno è attraversato da una forte tensione emotiva e, al contempo, da un violento atteggiamento di accusa da parte di Dante, che si scaglia prima contro Pisa (ai versi 79-90) e poi contro Genova (ai versi 151-157). Nello specifico, l’invettiva di Dante – in una sorta di continuazione con quanto accaduto in occasione degli incontri con Ciacco, Farinata degli Uberti e Pier della Vigna – si rivolge al potere politico, che disumanizza l’uomo rendendolo simile ad una belva e a causa del quale a rimetterci sono gli innocenti.
3Inferno, Canto XXXIII: il conte Ugolino e gli altri personaggi
3.1Ugolino della Gherardesca
Ugolino della Gherardesca fu un nobile pisano, nato da un’antica famiglia feudale ghibellina intorno al 1210. In quanto consuocero del re di Sardegna Enzo, figlio di Federico II, egli ne divenne ben presto vicario; fu così che, legato da un'amicizia profonda e filiale col ramo pisano dei Visconti – Giovanni Visconti, Giudice di Gallura, sposò sua figlia Giovanna – il conte Ugolino si avvicinò al partito guelfo, abbandonando la linea politica della famiglia.
Nel 1284 partecipò alla battaglia navale della Meloria, nella quale Pisa venne sconfitta da Genova, allora alleata di Firenze e Lucca. Alcune testimonianze vogliono che Ugolino avesse provato a fuggire durante la battaglia, generando il sospetto che fosse un codardo e disertore. Nonostante queste accuse, nello stesso anno egli venne nominato podestà e, due anni dopo, capitano del popolo di Pisa; avere un capo guelfo in una città ghibellina avrebbe reso più semplici le trattative di pace con le città di Firenze e Lucca. Fu così che, per tentare di garantire un periodo di pace alla città, il conte Ugolino cedette alle due città toscane alcuni castelli del territorio pisano.
Rotta l’alleanza col nipote Nino Visconti, egli si avvicinò all’arcivescovo Ruggieri, capo dei Ghibellini pisani. Ruggieri, però, insieme ad alcune potenti famiglie ghibelline, aizzò il popolo contro Ugolino e nel 1288, nel momento in cui il conte si recò dall’arcivescovo per concludere l’accordo, quest’ultimo lo tradì e lo fece incarcerare nella torre della Muda con due figli e due nipoti. Qui i cinque morirono di fame, probabilmente nel marzo 1289.
Il conte Ugolino è collocato da Dante nell’Antenòra, tra i traditori della patria e del partito: il riferimento potrebbe essere alla cessione dei castelli pisani alle città nemiche di Firenze e Lucca o al tentativo di fuga durante la battaglia della Meloria, ma è più probabile che il poeta si riferisca all’abbandono, da parte del conte, dei Ghibellini per allearsi con i Guelfi.
La sua colpa, però, pur essendo considerata da Dante una delle peggiori che possono essere commesse (vedi paragrafo 4.1), rimane relegata sullo sfondo: il personaggio assume rilievo all’interno del Canto 33 dell’Inferno in quanto traditore tradito. È così che il conte Ugolino ci appare nella sua doppia sfaccettatura:
- da una parte uomo politico feroce e brutale, sopraffatto dal desiderio di potere e – per questo – punito;
- dall’altra padre straziato, tenero e impotente di fronte all’ingiusta morte dei figli e dei nipoti della quale si sente, anche se indirettamente, responsabile.
Il conte Ugolino è quindi un personaggio dalla duplice e contrastante personalità: rabbioso e al contempo disperato, egli morde il capo del suo nemico con l’atteggiamento simile a quello di un animale, ma tocca poi profondi livelli di sensibilità umana nel racconto della tragedia della propria famiglia. La condanna di Dante per questo personaggio è perciò dura, ma lontana dal disprezzo: al conte Ugolino è affidato il monologo più lungo dell’Inferno, permettendo quindi la diffusione della verità su tale vicenda e, in un certo senso, la riabilitazione della figura di questo personaggio.
4Canto XXXIII Inferno: sintesi narrativa
Versi 1-78. Il peccatore che Dante ha incontrato al termine del Canto precedente, intento ad addentare il cranio del suo compagno di pena, si presenta: è il conte Ugolino, mentre il suo avversario è l’arcivescovo Ruggieri. Fu quest’ultimo ad attirarlo in trappola e, attraverso l’inganno, a rinchiuderlo nella torre pisana della Muda con i suoi due figli e i suoi due nipoti. Fu qui che i cinque, uno dopo l’altro, morirono di fame. Non appena terminato il suo racconto, il conte Ugolino storce gli occhi e riprende a rodere il cranio dell’arcivescovo Ruggieri.
Versi 79-90. A questo punto, Dante si abbandona ad una dura invettiva contro Pisa, città che fa da sfondo alla tragedia del conte Ugolino: il poeta si augura che le isole di Capraia e Gorgona si muovano arrivando a chiudere la foce dell’Arno, in modo tale da annegare tutti i pisani. Infatti, sebbene il conte Ugolino si fosse macchiato della colpa del tradimento della Patria avendo ceduto alcuni castelli a Firenze e Lucca, i suoi giovani familiari erano innocenti e non meritavano una così cruda morte.
Versi 91-108. Dante e Virgilio abbandonano l’Antenòra e si avviano verso la zona successiva del Cocito, la Tolomea. Qui le anime dannate sono imprigionate nel ghiaccio e, pur volendo piangere, non possono: le lacrime si congelano nelle orbite degli occhi, aumentando il dolore della pena. Dante sente soffiare il vento e ne chiede spiegazione a Virgilio il quale gli risponde che presto giungerà là dove potrà constatare con i propri occhi l’origine di quell’evento atmosferico.
Versi 109-157. Uno dei dannati della Tolomea si rivolge a Dante e Virgilio, pregandoli di essere liberato dalle lacrime ghiacciate. Dante risponde che lo farà (sebbene, poi, non manterrà la sua promessa), a patto che egli riveli la propria identità. Il dannato dice di essere frate Alberigo, e questo suscita lo stupore di Dante che lo crede ancora vivo. Il peccatore allora spiega che spesso avviene che l’anima di chi tradisce gli ospiti giunge alla Tolomea prima di aver cessato il naturale corso della vita, mentre un diavolo ne governa il corpo sulla Terra. Gli mostra allora l’anima di un altro traditore che risulta ancora essere vivo: si tratta di Branca Doria, il genovese che fece uccidere Michele Zanche. Alberigo invita allora Dante a mantenere la sua promessa, ma il poeta decide di non togliergli dagli occhi le lacrime ghiacciate. Si lancia quindi in un’invettiva contro i genovesi, uomini pieni di vizi.
5Analisi del Canto XXXIII dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
5.1La colpa: i traditori della patria o del partito e i traditori degli ospiti e degli amici
All’interno del Canto XXXIII dell’Inferno sono due le colpe condannate, entrambe legate al tradimento: Dante e Virgilio attraversano dapprima l’Antenòra, dove sono puniti i traditori della patria o del partito, e poi la Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti o degli amici. Dal punto di vista della geografia dei peccati, siamo di fronte a uno dei punti più bassi dell’Inferno, dove sono quindi destinate le anime che si sono macchiate, secondo Dante, delle più gravi colpe: più in basso vi è solo la Giudecca, dove sono condannati i traditori dei benefattori e dove si trova Lucifero.
Le anime dei traditori sono sottoposte ad una simile pena: esse sono tutte immerse nel Cocito, il lago ghiacciato che ricopre il nono Cerchio dell’Inferno. La condanna richiama la colpa: il tradimento si configura infatti come manifestazione più grande della perdita di umanità, raggelamento dell’agire umano che ha completamente perso il necessario calore della carità. Siamo quindi di fronte ad un contrappasso per analogia.
Diversa è la posizione delle anime: mentre i dannati dell’Antenòra sono immersi fino al collo con la testa dritta, quelli della Tolomea sono in posizione supina, con il volto rivolto all’insù. Questo ne aumenta pena: le loro lacrime, infatti, si solidificano immediatamente nelle orbite, impedendo alle altre di fuoriuscire e amplificando il dolore.
Importante è sottolineare quanto grave sia, per Dante, il tradimento degli ospiti e degli amici: nelle vicende di Frate Alberigo e di Branca Doria, condannando i due personaggi alla Tolomea nonostante essi siano ancora in vita, l’autore ipotizza una deroga teologica alla misericordia di Dio e alla possibilità di un’anima di redimersi fino all’ultimo istante della sua vita.
5.2«Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno»
Il verso 75 del Canto XXXIII dell’Inferno, «Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno», ha da sempre stimolato un forte dibattito critico a causa della sua voluta ambiguità, dando vita a diverse interpretazioni. Parafrasando il verso, il cui significato è “dopodiché, la fame prevalse sul dolore”, due possono essere le possibili spiegazioni:
- che il conte Ugolino morì non a causa del dolore provocatogli dalla condizione in cui si trovavano lui e, soprattutto, i suoi figli e nipoti, bensì per via della fame;
- che la fame ebbe il sopravvento sul dolore per la morte dei suoi familiari e, di conseguenza, se ne cibò.
In linea di massima, la tradizione ha optato per la prima ipotesi interpretativa, poiché – qualora si fosse cibato delle carni dei suoi figli e dei suoi nipoti – il conte Ugolino sarebbe riuscito a sopravvivere per discreto tempo. Questo contrasterebbe con le cronache dell’epoca, secondo le quali i cadaveri di Ugolino e dei suoi familiari sarebbero stati tolti dalla torre della Muda il nono giorno.
Altri critici, però, non escludono l’ipotesi di tecnofagia. Secondo tali studiosi, diversi sarebbero gli elementi atti ad avvalorare questa tesi: dai richiami continui, all’interno del Canto XXXIII dell’Inferno, al linguaggio legato al tema della fame, fino ai gesti stessi del conte Ugolino, il quale viene descritto mentre si morde le mani ed è condannato a rosicchiare in eterno il cranio del suo nemico.
Siamo di fronte a un chiaro esempio di “retorica della reticenza”: Dante volutamente non rende palese il significato del verso, in modo da lasciarci soltanto sospettare del cannibalismo di Ugolino.
6Parafrasi del canto XXXIII dell’Inferno
Testo
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso
Breve pertugio dentro da la Muda
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno
Con cagne magre, studiose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
Io non piangea, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".
Perciò non lacrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di subito levorsi
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia"
Queta’mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: "Padre mio, ché non mi aiuti?".
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno».
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ’l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
Ché se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata
e li altri due che ’l canto suso appella.
Noi passammo oltre, là ’ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l’ambascia;
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
riempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sì come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
già mi parea sentire alquanto vento:
per ch’io: «Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?».
Ond’elli a me: «Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo la cagion che ’l fiato piove».
E un de’ tristi de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli,
tanto che data v’è l’ultima posta
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’io sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
un poco, pria che’l pianto si raggeli»
Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».
Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo»
«Oh!», diss’io lui, «or se’ tu ancor morto?».
Ed elli a me: «Come ’l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scienza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea
E perché tu più volentier mi rade
le ’nvetriate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade
come fec’io, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l’ombra che di qua dietro mi verna.
Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso»
«Io credo», diss’io lui, «che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni»
«Nel fosso sù», diss’el, «de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancor giunto Michel Zanche,
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che ’l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi». E io non gliel’apersi;
e cortesia fu lui esser villano
Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?
Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.
Parafrasi
7Figure retoriche nel Canto XXXIII dell’Inferno
v. 31, «cagne magre, studiose e conte»: metafora per indicare il popolo pisano
v. 54, «infin che l’altro sol nel mondo uscìo»: perifrasi per indicare l’alba
v. 75, «Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno»: allitterazione
v. 80, «del bel paese là dove ’l sì suona»: perifrasi per indicare l’Italia
v. 95, «duol»: metonimia per indicare il pianto
8Ascolta l'audio lezione sul canto 33 dell'Inferno
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Domande & Risposte
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Dove si svolge il canto XXXIII dell’Inferno?
Nella ghiaccia del Cocito, ovvero nella seconda e terza zona del 9° cerchio.
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Quando si svolge Il Canto XXXIII dell’Inferno Dante?
E’ il pomeriggio del 9 aprile del 1300 o, secondo altri, del 26 marzo.
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Chi sono i protagonisti del Canto XXXIII dell’Inferno di Dante?
Il conte Ugolino e frate Alberigo.