Canto XXXII del Purgatorio di Dante: testo, parafrasi e spiegazione

Testo e spiegazione del canto XXXII del Purgatorio di Dante, il più lungo di tutta la Commedia e uno dei più complessi. Parafrasi e figure allegoriche del canto in cui si descrive la processione simbolica.
Indice
1Purgatorio XXXII: coordinate del canto

Nella foresta del Paradiso terrestre tra il fiume Lete e il fiume Eunoè. Un’ora e mezza (circa) prima del mezzogiorno del 13 aprile 1300 (o del 30 marzo 1300).
La processione allegorica torna indietro e rivela lo spaccato politico-religioso dell’epoca. Questo procedimento risponde pienamente al gusto medievale di Dante. Vediamo allora a cosa corrispondono gli elementi della processione, stando a quanto reputa la maggioranza degli studiosi.
- La pianta dispogliata di fiori e d’altra fronda: l’albero del bene e del male; la giustizia divina, offesa dal peccato di Adamo; l’obbedienza.
- Il grifone che non intacca l’albero con il becco: Cristo, che ubbidisce alla giustizia divina.
- Il grifone che lega all’albero il timone del carro: Cristo che riconcilia l’umanità con Dio per mezzo della Chiesa.
- Beatrice che siede a guardia del carro: la scienza divina che custodisce la Chiesa.
- L’aquila: l’impero.
- La discesa dell’aquila che colpisce il carro: le persecuzioni degli imperatori romani contro il Cristianesimo.
- La volpe denutrita che si avventa sul carro: l’eresia; essa è messa in fuga da Beatrice, la teologia.
- L’aquila che lascia le proprie penne sul carro: la donazione di Costantino, che dotò la Chiesa dei beni temporali traviandola.
- Il drago che si porta via una parte del carro: la cupidigia dei beni temporali, sottraendo alla Chiesa la sua vocazione alla povertà.
- Il carro trasformato in mostro con sette teste e dieci corna: la corruzione della Chiesa; le sette teste rappresentano i sette peccati capitali, tre dei quali (le teste con due corna) offendono Dio e il prossimo (superbia, invidia e ira).
- La ‘puttana sciolta’: la curia pontificia corrotta.
- Il gigante: il re di Francia, che pone la Chiesa sotto la sua soggezione,
- Il gigante che trascina il carro per la selva: il trasferimento della sede papale ad Avignone (1308).
Personaggi: Dante, Beatrice, Matelda, Stazio.
Personaggi nominati: Adamo; Pietro, Giovanni, Iacopo; Mosè ed Elia.
2Canto XXXII del Purgatorio: testo
Tant'eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m'eran tutti spenti.
Ed essi quinci e quindi avien parete
di non caler - così lo santo riso
a sé traéli con l'antica rete! -;
quando per forza mi fu vòlto il viso
ver' la sinistra mia da quelle dee,
perch'io udi' da loro un "Troppo fiso!";
e la disposizion ch'a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,
sanza la vista alquanto esser mi fée.
Ma poi ch'al poco il viso riformossi
(e dico "al poco" per rispetto al molto
sensibile onde a forza mi rimossi),
vidi 'n sul braccio destro esser rivolto
lo glorïoso essercito, e tornarsi
col sole e con le sette fiamme al volto.
Come sotto li scudi per salvarsi
volgesi schiera, e sé gira col segno,
prima che possa tutta in sé mutarsi;
quella milizia del celeste regno
che procedeva, tutta trapassonne
pria che piegasse il carro il primo legno.
Indi a le rote si tornar le donne,
e 'l grifon mosse il benedetto carco
sì, che però nulla penna crollonne.
La bella donna che mi trasse al varco
e Stazio e io seguitavam la rota
che fé l'orbita sua con minore arco.
Sì passeggiando l'alta selva vòta,
colpa di quella ch'al serpente crese,
temprava i passi un'angelica nota.
Forse in tre voli tanto spazio prese
disfrenata saetta, quanto eramo
rimossi, quando Bëatrice scese.
Io senti' mormorare a tutti "Adamo";
poi cerchiaro una pianta dispogliata
di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo.
La coma sua, che tanto si dilata
più quanto più è sù, fora da l'Indi
ne' boschi lor per altezza ammirata.
"Beato se', grifon, che non discindi
col becco d'esto legno dolce al gusto,
poscia che mal si torce il ventre quindi".
Così dintorno a l'albero robusto
gridaron li altri; e l'animal binato:
"Sì si conserva il seme d'ogne giusto".
E vòlto al temo ch'elli avea tirato,
trasselo al piè de la vedova frasca,
e quel di lei a lei lasciò legato.
Come le nostre piante, quando casca
giù la gran luce mischiata con quella
che raggia dietro a la celeste lasca,
turgide fansi, e poi si rinovella
di suo color ciascuna, pria che 'l sole
giunga li suoi corsier sotto altra stella;
men che di rose e più che di vïole
colore aprendo, s'innovò la pianta,
che prima avea le ramora sì sole.
Io non lo 'ntesi, né qui non si canta
l'inno che quella gente allor cantaro,
né la nota soffersi tutta quanta.
S'io potessi ritrar come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;
come pintor che con essempro pinga,
disegnerei com'io m'addormentai;
ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga.
Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch'un splendor mi squarciò 'l velo
del sonno, e un chiamar: "Surgi: che fai?".
Quali a veder de' fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo,
Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti,
e videro scemata loro scuola
così di Moïsè come d'Elia,
e al maestro suo cangiata stola;
tal torna' io, e vidi quella pia
sovra me starsi che conducitrice
fu de' miei passi lungo 'l fiume pria.
E tutto in dubbio dissi: "Ov'è Beatrice?".
Ond'ella: "Vedi lei sotto la fronda
nova sedere in su la sua radice.
Vedi la compagnia che la circonda:
li altri dopo 'l grifon sen vanno suso
con più dolce canzone e più profonda".
E se più fu lo suo parlar diffuso,
non so, però che già ne li occhi m'era
quella ch'ad altro intender m'avea chiuso.
Sola sedeasi in su la terra vera,
come guardia lasciata lì del plaustro
che legar vidi a la biforme fera.
In cerchio le facean di sé claustro
le sette ninfe, con quei lumi in mano
che son sicuri d'Aquilone e d'Austro.
"Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.
Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive".
Così Beatrice; e io, che tutto ai piedi
d'i suoi comandamenti era divoto,
la mente e li occhi ov'ella volle diedi.
Non scese mai con sì veloce moto
foco di spessa nube, quando piove
da quel confine che più va remoto,
com'io vidi calar l'uccel di Giove
per l'alber giù, rompendo de la scorza,
non che d'i fiori e de le foglie nove;
e ferì 'l carro di tutta sua forza;
ond'el piegò come nave in fortuna,
vinta da l'onda, or da poggia, or da orza.
Poscia vidi avventarsi ne la cuna
del trïunfal veiculo una volpe
che d'ogne pasto buon parea digiuna;
ma, riprendendo lei di laide colpe,
la donna mia la volse in tanta futa
quanto sofferser l'ossa sanza polpe.
Poscia per indi ond'era pria venuta,
l'aguglia vidi scender giù ne l'arca
del carro e lasciar lei di sé pennuta;
e qual esce di cuor che si rammarca,
tal voce uscì del cielo e cotal disse:
"O navicella mia, com'mal se' carca!".
Poi parve a me che la terra s'aprisse
tr'ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
che per lo carro sù la coda fisse;
e come vespa che ritragge l'ago,
a sé traendo la coda maligna,
trasse del fondo, e gissen vago vago.
Quel che rimase, come da gramigna
vivace terra, da la piuma, offerta
forse con intenzion sana e benigna,
si ricoperse, e funne ricoperta
e l'una e l'altra rota e 'l temo, in tanto
che più tiene un sospir la bocca aperta.
Trasformato così 'l dificio santo
mise fuor teste per le parti sue,
tre sovra 'l temo e una in ciascun canto.
Le prime eran cornute come bue,
ma le quattro un sol corno avean per fronte:
simile mostro visto ancor non fue.
Sicura, quasi rocca in alto monte,
seder sovresso una puttana sciolta
m'apparve con le ciglia intorno pronte;
e come perché non li fosse tolta,
vidi di costa a lei dritto un gigante;
e baciavansi insieme alcuna volta.
Ma perché l'occhio cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante;
poi, di sospetto pieno e d'ira crudo,
disciolse il mostro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo
a la puttana e a la nova belva.
3Parafrasi del canto XXXII del Purgatorio

I miei occhi erano talmente fissi e intenti a saziare la sete decennale di rivedere Beatrice, che nient’altro poteva destare gli altri sensi. E i miei occhi erano come protetti da un muro di noncuranza verso la realtà circostante – con questa forza il sorriso divino di Beatrice ancora li attirava a sé nelle maglie dell’antico amore! –, quando il mio sguardo fu costretto a distrarsi a sinistra dalle donne-virtù, perché io le udii esclamare «Troppo intenso, il tuo sguardo!»; e la mia capacità visiva debole poiché appena abbagliata dal sole, mi privò della vista per qualche istante. Quando la vista tornò a percepire la luce minore della processione (e dico ‘minore’ solo rispetto al grande splendore da cui mi distolsi a forza), mi accorsi che il glorioso esercito aveva girato verso destra e stava tornando indietro andando di fronte al sole e alle luci dei sette candelabri. Come una schiera di soldati, per riparare, ripiega a scudi alzati operando una conversione facendo perno sul vessillo prima di poter rigirarsi tutta, ugualmente quell’esercito del regno celeste che avanzava sfilò tutto davanti a noi prima che il carro girasse il timone. Poi le donne della virtù tornarono accanto alle ruote e il grifone fece muovere il carro, senza che alcuna penna si muovesse. Matelda, la bella donna grazie alla quale attraversai il Letè, e Stazio e io seguivamo la ruota destra (che aveva compiuto il giro descrivendo un arco minore). Mentre la processione percorreva la profonda foresta in questo modo, disabitata a causa di colei che credette al serpente, un canto paradisiaco ne regolava l’andatura.
Avevamo percorso uno spazio circa tre volte più grande di quello percorso da una freccia scoccata dall’arco, quando Beatrice smontò dal carro. Sentii mormorare da tutti il nome «Adamo»; poi tutti si disposero attorno a una pianta brulla. La sua chioma, più larga quanto più si innalza, sarebbe ammirata per la sua altezza anche dagli Indiani nelle loro foreste. «Beato sei tu, o grifone, che con il becco non deturpi questa pianta dal dolce sapore, poiché a causa sua il ventre di chi ne mangia si contorce dal dolore». In questo modo tutti gridarono attorno al forte albero; e l’animale dalla duplice natura disse: «Così si conserva la discendenza di ogni uomo giusto». E voltosi al timone che aveva trainato, lo collocò ai piedi della pianta spoglia lasciando a lei legato quel timone fatto dello stesso legno. Come le piante sulla terra a primavera, quando la gagliarda luce solare scende insieme a quella della costellazione dell’Ariete che splende seguendo la costellazione dei Pesci, si gonfiano di linfa e si ornano di gemme, e poi ognuna cambia la sua veste con il colore dei propri fiori, prima che il sole si congiunga con l’altra costellazione, quella del Toro; allo stesso modo la pianta che prima aveva i rami così spogli, si rinnovò tutta, facendo sbocciare fiori di un colore meno vivo di quello delle rose e più acceso di quello delle viole. Io non ne afferrai bene le parole, ma in terra di sicuro non si canta l’inno intonato allora da quella gente, né fui capace di ascoltare il canto fino alla fine.
Se io fossi capace di descrivere il modo in cui gli spietati occhi di Argo cedettero al sonno udendo cantare gli amori della ninfa Siringa, occhi ai quali costò tanto caro il continuo vegliare; riuscirei di certo a raffigurare il modo in cui mi addormentai, come un pittore dipinge ispirandosi a un preciso modello; ma provi, chiunque lo voglia, a descrivere adeguatamente il momento in cui ci si addormenta. Perciò vado dritto al momento in cui mi svegliai e dico che una luce abbagliante interruppe il mio sonno unita a un richiamo: «Alzati: che fai?». Come alla vista dei fiori di quel melo che rende affamati gli angeli del dolce frutto, e genera in cielo un perpetuo banchetto nuziale, Pietro, Giovanni e Giacomo, condotti sul monte Tabor e vinti nei sensi dalla trasfigurazione, ripresero coscienza all’udire la voce da cui furono interrotti sonni ben più profondi, e quindi si accorsero che dal loro gruppo erano scomparsi Mosè ed Elia, e che la veste del Maestro era cambiata; allo stesso modo ripresi i sensi, e vidi su di me chinata Matelda, lei che prima aveva guidato i miei passi lungo il fiume Letè.
Missione di Dante. E tutto preoccupato dissi: «Dov’è Beatrice?». Matelda mi rispose: «Eccola sotto l’albero che ha appena rinnovato le fronde, seduta sulla sua radice. Vedi le sette virtù hanno intorno a lei per proteggerla: gli altri che seguono il grifone stanno salendo cantando un più dolce e profondo canto». E se Matelda disse altro, non lo so, perché mi ero nuovamente perso a guardare Beatrice, che mi impediva di notare altro. Sedeva sola sulla nuda terra, posta lì a guardia del carro che il grifone aveva legato all’albero. Le sette virtù facevano un piccolo chiostro intorno a lei, reggendo in mano i candelabri che neanche Aquilone e e Austro possono spegnere. «Per poco tempo sarai abitante di questo bosco: presto sarai con me per sempre cittadino della Roma celeste di cui Cristo è cittadino. Per tale ragione, a beneficio dell’umanità persa nel peccato, adesso guarda con attenzione il carro, e quando sarai ritornato in terra, racconta ciò che avrai visto». Così parlò Beatrice; e io, pienamente disposto a seguire i suoi ordini, comincia a guardare con attenzione dove lei aveva indicato.

Mai scese così rapidamente un fulmine da una densa nube, precipitando dalle più alte regioni del cielo, come vidi scendere in picchiata l’aquila verso l’albero, squarciandone la corteccia, oltre ai fiori e alle fronde appena rinnovate; poi colpì il carro con tutta la sua forza e questo si piegò allo stesso modo di una nave in tempesta in balia delle onde, piegandosi ora su un fianco, ora sull’altro. Poi ecco avventarsi sul fondo del carro trionfale una volpe che sembrava digiuna di buon cibo; ma Beatrice, rimproverandola per le sue colpe laide, la costrinse a fuggire tanto velocemente quanto lo permettevano le sue membra gracili (cioè lentamente). Dunque per la stessa via dalla quale era giunta la prima volta, vidi scendere l’aquila all’interno del carro, cospargendole delle sue penne; e con un tono lamentoso, scese dal cielo una voce che disse: «O mia piccola nave, di quale avariata merce sei carica!».
Poi mi sembrò che la terra si aprisse fra le due ruote, e vidi uscirne un drago che trapassò con la coda il carro; e come la vespa che ritira il pungiglione, ritraendo a sé la sua coda pericolosa, asportò una parte del fondo del carro, e se ne andò serpeggiando. Ciò che rimase del carro, come la terra fertile che si ricopre di gramigna, dalle penne, offerte forse con intenzione giusta e generosa, venne ricoperto, e ne furono ricoperti entrambe le ruote e il timone, in un tempo più breve di quello che impiega la bocca a fare un sospiro.
Così trasformato, il carro sacro mise fuori delle teste in ciascuna delle sue parti, tre sopra il timone e una a ogni angolo. Le prime avevano due corna come quelle dei buoi, ma le altre quattro avevano un corno solo al centro della fronte: un mostro simile non si era mai visto. Seduta sopra di esso, salda come una rocca sulla cima di un monte, mi apparve una sfrontata meretrice, che guardava intorno con occhi impudichi; e affinché nessuno gliela rapisse, vidi eretto di fianco a lei un gigante; e di tanto in tanto si baciavano. Ma poiché volse verso di me il suo sguardo desideroso e vagante, quel crudele amante la flagellò dalla testa ai piedi; poi, pieno di sospetto e reso crudele dall’ira, slegò il mostro, e lo condusse nella selva, tanto che soltanto con i suoi alberi mi impedì di vedere la meretrice e la bestia mostruosa.
4Sintesi narrativa del canto XXXII del Purgatorio
Vv. 1-33: Dante contempla Beatrice, e le tre donne alla sinistra del carro gli rimproverano di guardarla troppa intensamente. Quindi lo costringono a volgere lo sguardo alla sua sinistra. Essendo stato abbagliato dallo splendore di Beatrice, inizialmente Dante non riesce a distinguere nulla. Al ritornare della vista, vede che la processione sta tornando indietro verso oriente. Allora, insieme a Stazio e a Matelda, la segue ponendosi presso la ruota destra del carro.
Vv. 34-63: Beatrice scende dal carro, mentre tutti i componenti formano un circolo attorno a un albero dalla chioma dilatata, reso spoglio dal peccato di Adamo. Dante sente mormorare da tutti il nome “Adamo” e rivolgere una lode al grifone perché non lacera col becco questa pianta. Il grifone porta il carro presso l’albero e lega ad esso il timone. A questo punto la pianta rifiorisce con fiori sanguigni.
Vv. 64-84: Dante si addormenta pesantemente, senza sapere in che modo ciò sia avvenuto (nessuno si accorge del momento esatto in cui si addormenta). Si risveglia, e c’è al suo fianco solo Matelda: Dante chiede di Beatrice. Lo stupore del poeta è paragonato a quello che aveva colto Pietro, Giovanni e Giacomo, quando si ridestarono dopo aver assistito alla trasfigurazione di Cristo e alla scomparsa di Mosè ed Elia.
Vv. 85-108: Beatrice è seduta ai piedi dell’albero, attorniata dalle sette donne-virtù e dai sette candelabri; il resto della processione intanto fa ritorno al cielo. Beatrice invita Dante a osservare attentamente le vicende del carro che seguiranno e a raccontare sulla terra ciò che avrà visto per salvare l’umanità traviata dal peccato.

Vv. 109-129: Un’aquila scende veloce dall’albero e attacca il carro, facendolo vacillare come una nave in tempesta. Quindi una volpe magrissima si lancia contro il fondo del carro, ma Beatrice la rimprovera e la mette in fuga. L’aquila scende di nuovo sul carro, questa volta senza danneggiare la pianta. Sul carro lascia cadere una parte delle proprie penne.
Vv. 130-141: Un drago emerge dalla terra, conficca la coda nel carro e ne strappa una parte, mentre le penne dell’aquila si moltiplicano ricoprendo le ruote e il timone. Poi il carro si trasforma: compaiono sul timone tre teste con due corna ciascuna e, ai quattro angoli, quattro teste con un corno.
Vv 142-160: Sul carro appare una puttana dallo sguardo lascivo e un gigante si avvicina a lei baciandola. La meretrice punta ammiccante lo sguardo su Dante e allora il gigante, infuriato, prima la frusta da capo a piedi, poi slega il carro dall’albero e lo trascina nella selva insieme alla meretrice.
5Analisi e spiegazione del canto XXXII del Purgatorio
5.1Il canto più lungo della Commedia

Il canto XXXII del Purgatorio è il più lungo di tutta la Commedia con i suoi 160 versi. È una lunghezza strategica perché la narrazione abbraccia un episodio molto ampio che ha bisogno di molto spazio.
È un passo di forte matrice dottrinale e Croce l’avrebbe definito mero esercizio filosofico-teologico, non poetico. Tuttavia, come afferma Bosco, «il fascino di questa pagina per noi moderni è soprattutto nella sua grandiosità complessiva», nell’orchestrazione delle immagini e dei loro arcani significati. Dunque non ha senso piegare alla nostra sensibilità moderna questi episodi così lontani da noi: non possiamo modellare il poeta e la sua poesia a nostro piacimento, semmai dobbiamo sforzarci di entrare nelle sue visioni e nel suo pensiero. Infatti Dante qui concentra tutto il suo sentire medievale intensificando il rapporto tra visione e linguaggio.
Oltre ad essere il canto più lungo è anche uno dei più complessi al livello semantico giacché Dante rappresenta le vicende della Chiesa in una sfilata di immagini che hanno la stessa condensazione onirica di un sogno. Infatti nel canto Dante si addormenta e sembra come di stare in un dormiveglia continuo dove luce, suoni, ombre, immagini, dialoghi si avvicendano con la logica infallibile del sogno – dove tutto è in qualche modo coerente. Tutto significa. Beatrice raccomanda a Dante di fare attenzione a ciò che sta per vedere, quasi come temesse che il suo poeta possa dimenticarlo. Non è in fondo il rischio che corriamo ogni volta che ci svegliamo dopo un sogno? Non rischiamo di dimenticare ciò che abbiamo visto e non saperlo più raccontare? Ma Dante-agens presta attenzione e ci racconta punto per punto che cosa accade al carro, all'albero e alle anime in processione.
5.2La scrittura allegorica
In questo canto c’è il trionfo dell’espressione figurata. Questo modo di esprimere i concetti è distante dal nostro, che amiamo invece spiegazioni letterali e univoche. Nel Convivio d’altronde, Dante aveva affermato che tutte le opere, comprese quelle poetiche, devono essere lette e interpretate come le Sacre Scritture, andando oltre il significato letterale.
Il testo della Commedia si presenta quindi scritto su quattro livelli semantici:
- letterale, il primo significato delle parole;
- allegorico, il valore nascosto dietro il testo;
- morale, sarebbe il significato morale del racconto;
- anagogico, cioè che esprime una verità trascendente e spirituale.
Il grande critico Northrop Frye parlava di una scrittura cherigmatica per quanto riguarda le Sacre Scritture: è una scrittura che ha il compito di rivelare le verità ultime. Anche Dante applica il concetto di rivelazione alla sua opera, che infatti svela i destini del mondo e degli uomini.
Non solo: il libro visionario e rivelatore per eccellenza è l’Apocalisse di San Giovanni: è proprio questa la fonte principale del tessuto iconografico della Commedia e di questo canto in particolare, di cui riprende le immagini più pregnanti (il drago, la donna, l’aquila, il carro, etc.).
Insieme all’Apocalisse un altro sottotesto è il famosissimo Cantico dei Cantici. Di questo canto abbiamo riportato la lettura vulgata, con l’interpretazione considerata canonica, ma vale la pena precisare che la simbologia in Dante è molto dinamica e tutti gli studiosi hanno offerto il loro punto di vista. Sembra quasi che:
«Il lettore moderno, dopo tante discussioni sui simboli danteschi, tutte più o meno discordanti, è tentato di rassegnarsi a non sapere che cosa il poeta intendesse con essi, tranne quando egli stesso ce lo ha espressamente detto o quando lo stesso simbolo è stato usato in una delle sue fonti ed è chiaramente spiegato in essa. In quest'ultimo caso si dovrebbe naturalmente essere sicuri che l'opera in questione sia stata una fonte per Dante, e anche allora che Dante abbia conservato inalterato il significato che il simbolo portava nella fonte da cui l'ha tratto» (K. Foster).
5.3Le ultime tappe della processione
Questi ultimi canti del Purgatorio (dal XXIX al XXXIII) hanno la funzione di una cerniera tra le due cantiche creando un unico moto narrativo. Dopo la confessione davanti a Beatrice e la purificazione nelle acque del Letè, Dante, che a questo punto si trova presso la ruota destra del carro insieme a Stazio e a Matelda, può ora assistere nell’Eden alla seconda parte della rappresentazione allegorica: la processione torna indietro e la sua sacra rappresentazione si divide due fasi essenziali, ben distinte dall’invincibile sonno di Dante (vv. 61-84): la prima riguarda il tempo che va dal peccato di Adamo fino al suo riscatto operato dalla venuta di Cristo (vv. 1-63); la seconda, invece, dall’ascensione del Redentore fino alla sua seconda venuta, in cui sono compresi gli avvenimenti coevi alla stesura del canto (vv. 85-160).
Procediamo dall’inizio. Subito dopo che Beatrice si è disvelata, Dante resta abbagliato dal suo divino splendore. Al secondo verso il poeta afferma infatti che vuole placare la sete decennale di rivedere Beatrice. Le sette donne che rappresentano le virtù teologali e cardinali esortano il poeta a non fissarsi nella contemplazione, bensì a guardare quanto sta per accadere.
5.4Prima fase della processione
La processione, comparsa nel XXIX canto, infatti, comincia a spostarsi in direzione del sole, dunque verso est e verso Dio, Alfa e Omega, principio e fine, tempo storico e tempo eterno. Il grifone muove il carro senza creare scossoni e rappresenta Cristo che si è inserito nella tradizione del Vecchio Testamento, senza negarne il valore, ma anzi completandolo. La processione si arresta davanti ad un albero spoglio di fronte al quale tutti i partecipanti gridano il nome di “Adamo”. È evidente che si tratta dell’albero della conoscenza del bene e del male descritto nel libro della Genesi.
Il grifone-Cristo lega il carro all’albero e viene lodato per non averne gustati i frutti, cioè per aver rifiutato i piaceri terreni. Quando il carro viene legato all’albero, si ricopre di fiori rossi che richiamano il sangue, dunque del sacrificio della croce. Attraverso il sacrificio di Cristo, infatti, è stato possibile che l’Umanità e Dio si riconciliassero e che, per mezzo della Chiesa, tornasse la Sua giustizia dopo quanto accaduto con il peccato originale. Giunti a questo momento, Dante si addormenta senza riuscire a resistere.
5.5Seconda fase della processione
Dante è risvegliato da Matelda. In quel momento il grifone-Cristo sale in cielo, tornando al Padre, mentre Beatrice resta a guardia del carro, seduta sulle radici dell’albero, accompagnata dalle sette fanciulle: è la teologia a guardia della Chiesa, assistita dalle virtù teologali e cardinali. È impressionante vedere come Dante pieghi a significati ulteriori elementi biografici e poetici.
Beatrice parla e annuncia a Dante la sua missione: scrivere la Commedia e descrivere, come un profeta, i tre regni oltremondani. È questa la missione da compiere e Dante, se farà ciò, sarà finalmente degno della vita eterna. Questo punto è centrale: Beatrice rivela a Dante il cuore della missione, fare del bene, amare l’umanità regalandole il racconto di questa visione così straordinaria. L’aspetto morale diventa quindi il principale di tutta l’opera al punto da vincere su quello estetico: la Commedia dovrà essere un’opera scritta per salvare il mondo dalla selva del peccato e Dante sa che è necessario abdicare a tutto il resto e portare a termine questo compito così delicato.

Detto ciò, cominciano ad accadere cose straordinarie intorno al carro. Un’aquila graffia l’albero e colpisce il carro: è l’Impero Romano – da Nerone a Domiziano – che perseguita i cristiani; giunge una volpe magrissima (l’eresia), subito messa in fuga da Beatrice.
L’aquila torna indietro e lascia una penna sul carro: sarebbe la donazione di Costantino che ha dato origine al potere temporale della Chiesa.
Un drago emerge dalla terra e spacca il carro portandone via un pezzo. Il carro quasi si ricopre di piume.
Comincia adesso una terribile, mostruosa metamorfosi (la corruzione della Chiesa?): spuntano infatti sette spaventose teste – i sette vizi capitali? – tre sulla parte del timone e quattro ai rispettivi angoli del carro. Le teste sul timone hanno due corna, mentre le altre una sola.
Sul carro compare una prostituta che si guarda attorno con spavalderia ed è custodita da un gigante: è la corrotta curia di Roma che si affida alla protezione della corte di Francia (del Re Filippo il Bello). La donna lancia un’occhiata lasciva a Dante: forse una profferta per corromperlo? Il gigante se ne accorge e la picchia selvaggiamente e corre via con il carro nella parte più oscura della foresta. In questo passo è possibile leggere un calco del famoso schiaffo di Anagni dato da Filippo il Bello a Bonifacio VIII e al successivo trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone (1308). Oppure e forse meglio anche rispetto alla cronologia, la recente proposta di Antonio Alessandro Bisceglia rintraccia nell’episodio quanto avvenuto nel luglio 1314 durante il conclave di Carpentras, quando i cardinali riuniti vennero assaliti e minacciati da uomini armati capeggiati da Bertrand de Got, nipote di Clemente V. A seguito di questo episodio ci fu l’elezione di Giovanni XXII, che consolidò il trasferimento della sede papale in Francia, fino allora provvisoria.
5.6La storia della Chiesa per immagini
Attraverso questo elaborato linguaggio allegorico Dante ha cercato di creare una sorta di riassunto vivente della storia dell’umanità: il peccato di Adamo, il sacrificio di Cristo e la riconciliazione tra Dio e l’Umanità; poi le persecuzioni e le eresie, la donazione di Costantino, la corruzione dilagante nella curia papale, la diffusione del vizio e poi la rovinosa alleanza tra il papato e il regno di Francia con lo spostamento della curia pontificia ad Avignone.
Dante aveva a cuore l’idea di una Chiesa lontana dal potere temporale e depreca quanto accaduto con l’alleanza tra Chiesa e Regno di Francia. In tutta la Commedia si ravvisano elementi antifrancesi e anti-angioini. Sono loro, infatti, ad avere costretto la Chiesa a lasciare Roma per trasferirsi ad Avignone sotto il papa Clemente V.
5.7La Processione come allegoria delle vicende interiori di Dante

Grazie alla complessità dei simboli utilizzati nella descrizione del corteo (l’albero, il grifone, il carro, l’aquila) e al contesto in cui essi sono inseriti, Dante riesce ad offrire una raffigurazione significativa non solo esteticamente degli eventi storici, ma riesce a trasfondere nel lettore il dramma interiore che hanno comportato quegli avvenimenti, le lacerazioni dello spirito, riuscendo ad oggettivare nel carro tirato dal grifone il veicolo della propria anima e ad osservarne le vicende di degradazione e di rinascita.
In particolare l’ultima scena è davvero pregnante: la meretrice ammicca al poeta suscitando l’ira del gigante. Un’unione mostruosa a cui Dante assiste e rischierebbe quasi di partecipare: questa può essere letta come allusione non solo a fatti storici, ma anche alla coscienza stessa di Dante, al suo personale dramma interiore perso nella tentazione dei beni terreni, come la gloria, il potere, che adesso si rivelano in modo drammatico dopo i rimproveri fatti da Beatrice nei canti precedenti.