Canto III del Paradiso di Dante: testo, parafrasi, commento e figure retoriche
Indice
1Canto III del Paradiso: trama e struttura
Il III canto dell'Inferno è dominato dal dialogo con Piccarda Donati, una nobildonna fiorentina che Dante ebbe modo di conoscere quando era ancora in vita come si evince dalla terzina 61-63, in cui il poeta fiorentino ammette di aver, finalmente, riconosciuto la donna.
L'ingresso di Piccarda Donati nel III canto viene annunciato da una lunga introduzione (vv. 10-18) in cui Dante descrive il suo smarrimento di fronte a delle figure evanescenti che sono, così come gli appaiono, quelle degli spiriti difettivi assegnati al cielo della Luna. La vaghezza di questi spiriti viene descritta con una lunga serie di similitudini in cui il poeta definisce la loro indefinitezza simile a quella di un’immagine riflessa in un vetro o in uno specchio d’acqua (vv. 10-13) o, con un riferimento decisamente più raffinata, a quella della pallida luminosità di una perla sulla bianca fronte di una dama: similitudine che fa riferimento all’uso delle giovani nobili dell’epoca, quale era Piccarda Donati, di portare una perla sulla fronte; Dante, credendo appunto di trovarsi davanti a delle figure riflesse, si gira credendo di avere quelle reali alle sue spalle (vv. 17-18) e commettendo in tal modo l’errore opposto di colui che “accese amor tra l’omo e ‘l fonte”, un riferimento al mito greco di Narciso, un cacciatore di divina bellezza che, vedendo la propria immagine riflessa in un lago, muore affogato nel tentativo di afferrarla e baciarla. Il poeta, in preda alla confusione, si rivolge a Beatrice, che gli spiega di trovarsi davanti ad immagini reali.
Inizia così il dialogo con lo spirito che si presenta come Piccarda (v. 49): il lungo confronto con Dante, che come detto occupa praticamente tutto il Canto, può essere suddiviso in due parti, la prima delle quali (vv. 34-57) ci presenta la protagonista del dialogo, che dice di essere stata una monaca quand’era in vita (v. 46) e di essere stata assegnata al Cielo più basso poiché non rispettò i suoi voti: ma né lei, né gli spiriti come il suo, soffrono questa condizione perché sono comunque partecipi della Grazia divina.
La seconda parte del dialogo (vv. 58-90) è quello che, dal punto di vista contenutistico e teologico, appare più denso di tematiche. Dante, infatti, chiede a Piccarda perché non desideri assurgere ad un cielo più alto e quindi essere maggiormente partecipe della Grazia divina. Piccarda gli spiega che, essendo pervase dalla carità, non desiderano altro rispetto a quello che già hanno, anzi lo stato di beatitudine necessita l’uniformità dei propri desideri con quelli divini.
A questo punto, però, Dante chiede a Piccarda quali siano i voti cui non ha tenuto fede (vv. 91-120), e lo spirito gli spiega di aver deciso in gioventù di seguire i voti dell’ordine fondato da santa Chiara, la quale si trova in un cielo più elevato, ma che uomini più abituati a far male che a far del bene la rapirono e l’allontanarono definitivamente dalla vita che aveva scelto. Stessa triste sorte, dice Piccarda indicandola, era toccata all’anima che le stava affianco che era quella di Costanza d’Altavilla, moglie dell’imperatore Enrico VI di Svevia e madre di Federico II.
Finita quest’ultima spiegazione l’anima di Piccarda compare come un sasso inghiottito dall’acqua (v.123) intonando l’Ave Maria, ed il Canto si avvia alla fine (vv. 121-130). Dante, stupito e ancora desideroso di fare altre domande, si gira verso Beatrice, che però lo fulmina con lo sguardo.
Il canto si può perciò distinguere in queste cinque parti:
- 1 – 33: apparizione di Piccarda Donati;
- 34 – 57: presentazione di Piccarda Donati;
- 58 – 90: Piccarda istruisce Dante sui vari gradi di beatitudine;
- 91 – 120: l’inadempienza di Piccarda e Costanza d’Altavilla;
- 121 – 130: sparizione di Piccarda e Costanza, conclusione del Canto.
1.1Piccarda e Costanza
Le due anime difettive che Dante ci presenta nel cielo della Luna sono quelle di Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla che, pur accomunate da un destino simile, hanno nel Canto un peso notevolmente diverso dato che la prima domina l’intero episodio mentre la seconda scompare senza aver mai aperto bocca.
Piccarda è una giovane donna fiorentina appartenente alla nobile famiglia dei Donati, tra i protagonisti della vita politica del Comune di Firenze nella seconda metà del XIII secolo, e sicuramente era conosciuta dall’autore che, nonostante le difficoltà causate dall’evanescenza della sua figura, alla fine ammette di averla riconosciuta (vv. 62-63). Alla sua figura si era già fatta allusione in un altro momento della Commedia, cioè nel Canto XXIV del Purgatorio quando Dante, nella cornice dei golosi, incontra Forese Donati, uno dei due fratelli della pia donna che assicura Dante del fatto che, per certo, la troverà tra i beati (Purg. vv. 13-15).
L’altro fratello è Corso, esponente della fazione politica dei Guelfi Neri che, probabilmente nel periodo in cui era podestà di Bologna, rapì Piccarda dal convento di clarisse in cui ella aveva voluto rinchiudersi, per darla in sposa ad un altro esponente politico dei Guelfi Neri, per sancire così una definitiva alleanza politica. Protagonista di una vita avventurosa e violenta, Corso muore assassinato nel 1308, cioè dopo la scrittura della Cantica ma prima del viaggio immaginifico di Dante il quale, per questo motivo, può far profetizzare a Forese che il fratello finirà per certo all’Inferno.
Della vita di Piccarda invece, oltre a ciò che viene narrato da Dante, si sa ben poco, ma è probabile che sia morta poco dopo il suo rapimento.
L’altra figura che compare in questo Canto è quella di Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II il Normanno: data la caratura del personaggio, su di essa si hanno notizie abbastanza certe. Dante la pone tra le anime difettive anche se l’imperatrice non prese mai i voti sacri.
Nella storia raccontata dal poeta fiorentino troviamo l’eco di una vera e propria leggenda che ebbe credito per lungo tempo, e secondo la quale Costanza venne portata via dal convento nel quale si era ritirata per ordine di papa Celestino III che, per convenienze politiche, le impose il matrimonio con Enrico VI di Svevia, unione dal quale nacque Federico II, ultimo esponente di primo piano degli Hohenstaufen.
2La disposizione delle anime del Paradiso
Piccarda Donati è la prima anima beata che Dante incontra nella sua ascesa paradisiaca, una figura che si caratterizza immediatamente per la sua incorporeità, che Dante rende attraverso una serie di efficaci similitudini nella prima parte del canto, in cui hanno una decisa predominanza quelle che si basano sul tema acquatico: se all’inizio l’immagine della beata appare simile a quella riflessa da “acque nitide e tranquille” (v. 11), quando essa scompare lo fa come qualcosa che viene inghiottito dall’ “acqua cupa e grave”. L’incorporeità è una caratteristica che differenzia decisamente le anime beate da quelle penitenti e, soprattutto, da quelle dannate. Se la figura di Piccarda è resa più eterea e bella (v. 48) dalla beatitudine, al punto che Dante stenta a riconoscerla, le figure di dannati e penitenti sono legate in maniera quasi concreta e materiale ad una corporeità attraverso cui patiscono le loro pene o si purgano dai peccati.
A differenza delle anime delle altre cantiche, inoltre, quelle beate non sono disposte nei vari cieli attraverso cui Dante ascende, ma si trovano tutte poste nel cielo dell’Empireo, che è quello divino. Tuttavia, anche tra i beati esiste una differenza nella beatitudine data ad una maggiore o minore vicinanza all’Eterno, che quindi le fa beneficiare in maniera diversa della Grazia divina secondo uno schema che, secondo la critica, Dante avrebbe desunto dal De civitate Dei di Agostino.
Le anime difettive, cioè quelle che, come Piccarda, sono venute meno ai loro voti, sono quelle che si trovano più distanti dalla fonte di beatitudine, ciononostante non hanno desiderio di aumentare il loro grado di felicità (vv. 71-84). I beati si conformano quindi al volere divino, ma senza forzature, e solo in virtù della carità (v. 71) e, rispetto alle esperienze terrene, mostrano un sereno distacco: ne è la prova il tono che Piccarda usa per raccontare il suo rapimento, definendo i suoi rapitori come “a mal più ch’ a bene usi” (v. 106), non pronunciando quindi parole di condanna, quanto di compassionevole commiserazione.
Sempre sul piano linguistico e lessicale è da notare il tono decisamente aulico del discorso della Donati in merito all’ordine Paradisiaco, e alla volontà dei beati che si impronta naturalmente a quella divina, caratterizzato dall’uso di parole in latino per chiudere le rime della terzina 77/79.
3Testo e parafrasi del III Canto del Paradiso
Testo
Quel sol che pria d'amor mi scaldò 'l petto,
di bella verità m'avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva' il capo a proferer più erto;
ma visïone apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.
Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan d'i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
tali vid'io più facce a parlar pronte;
per ch'io dentro a l'error contrario corsi
a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte.
Sùbito sì com'io di lor m'accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
«Non ti maravigliar perch'io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo püeril coto,
poi sopra 'l vero ancor lo piè non fida,
ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto.
Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che le appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi».
E io a l'ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza'mi, e cominciai,
quasi com'uom cui troppa voglia smaga:
«O ben creato spirito, che a' rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s'intende mai,
grazïoso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte».
Ond'ella, pronta e con occhi ridenti:
«La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.
I' fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l'esser più bella,
ma riconoscerai ch'i' son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.
Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.
E questa sorte che par giù cotanto,
però n'è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto».
Ond'io a lei: «Ne' mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da' primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or m'aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m'è più latino.
Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?».
Con quelle altr'ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch'arder parea d'amor nel primo foco:
«Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch'avemo, e d'altro non ci asseta.
Se disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;
che vedrai non capere in questi giri,
s'essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch'una fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com'a lo re che 'n suo voler ne 'nvoglia.
E 'n la sua volontade è nostra pace:
ell'è quel mare al qual tutto si move
ciò ch'ella crïa o che natura face».
Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d'un modo non vi piove.
Ma sì com'elli avvien, s'un cibo sazia
e d'un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,
così fec'io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.
«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch'ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi'mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.
Uomini poi, a mal più ch'a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
E quest'altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s'accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò ch'io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l'ombra de le sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest'è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò 'l terzo e l'ultima possanza».
Così parlommi, e poi cominciò 'Ave,
Maria' cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,
e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi fece a dimandar più tardo.
Parafrasi
mi aveva insegnato la bella verità,
con numerose prove, sul dolce aspetto;
ed io, per dimostrare d'aver corretto
me stesso, più di quanto è necessario
alzai dritto il capo per parlare;
ma apparve una visione che prese
su di sé il mio sguardo in modo così forte
da distrarmi da ciò che dovevo dire.
Come attraverso vetri trasparenti e puliti,
o acque limpide e tranquille,
non così profonde da nascondere i fondali,
rispecchiano i particolari dei nostri volti
così debolmente, che una perla su una fronte bianca
non appare così vistoso ai nostri occhi;
così io vidi dei visi pronti a parlare;
per i quali feci l'errore contrario di
colui che s'innamorò dell'acqua.
Appena m'accorsi di loro,
ritenendole immagini riflesse,
girai gli occhi per vedere di chi fossero;
ma vidi nulla, e riguardando avanti
dritti nel volto della mia dolce guida,
che, sorrideva con gli occhi accesi.
«Non ti meravigliare del mio sorridere»,
mi disse, «per il tuo pensare puerile,
perché il che il tuo pensiero ancora diffida della verità,
rivolgendoti, come al solito, all'errore:
quelle che vedi sono vere sostanze,
che sono qui perché non rispettarono i voti.
Però parla con loro e dà loro fiducia;
che la luce divina che le appaga
non permette che si allontanino da lei».
All'ombra che sembrava più desiderosa
di parlare, mi rivolsi, e le dissi,
quasi come uomo confuso da troppo desiderio:
«O spirito ben nato, che ai raggi
della vita eterna assapori quella dolcezza
che, se non gustata, è impossibile capire,
mi faresti cosa gradita araccontarmi
del tuo nome e della vostra storia».
Al che lei, subito e con occhi gioisi:
«La nostra carità non chiude le porte
ai giusti desideri, come quella che
vuole simile a sé tutti i beati.
In vita fui una monaca;
e se la tua mente ben ricorda,
non ti nasconderà il mio esser ora più bella,
e riconoscerai che sono Piccarda,
messa qui con gli altri che sono beati,
e messi nella sfera più lenta.
I nostri sentimenti, che da soli si scaldano
del piacere dello Spirito Santo,
gioiscono dell'ordine da lui stabilito.
E questo destino che sembra così umile,
ci vien data perché trascurammo
i nostri voti, talvolta mancandoli».
Allora le risposi:«Nel vostro ammirevole aspetto
risplende un ché di divino che
vi fa diversi da come eravate in terra:
però non fui veloce a ricordare;
ma ora mi aiuta ciò che tu mi dici,
ed il ricordare mi è più facile.
Ma dimmi: voi che siete beati,
desiderate un cielo più alto
per contemplare meglio Dio ed essergli più vicini?».
Mi sorrise con le altre ombre;
poi mi rispose così lieta,
che sembrava ardere dell'amor divino:
«Fratello, la nostra carità acquieta
i nostri desideri, e li fa desiderare
solo ciò che abbiamo, senza volere altro.
Se desiderassimo un cielo superiore,
i nostri desideri non rispetterebbero
il volere di Colui che qui ci mise;
cosa che vedrai non ha spazio qui,
se è necessario qui vivere in carità,
e se questa valuti adeguatamente.
Anzi si conforma la nostro essere beati
attenersi alla volontà divina,
e farla uguale ai nostri desideri;
e così, come noi siamo disposti in vari gradi
in questo regno, a tutti i beati piace la loro disposizione
come dei sudditi che vogliono lo stesso del re.
Nel suo volere è la nostra pace:
è quel mare verso cui tutto tende
ciò che essa crea o che essa fa».
Allora mi fu chiaro come ogni luogo
in cielo è ugualmente Paradiso, anche se la Grazia
di Dio non vi cade in ugual modo.
Ma così come accade di saziarsi di un cibo
ed aver ancora desiderio d'un altro,
quando si chiede una cosa e si ringrazia per altra,
così io feci con il mio atteggiamento e le parole,
per farmi dire da lei quale fu il compito
che non portò a termine.
«Una vita perfetta e grandi meriti mette
una donna su in cielo», mi disse, «secondo la cui regola
nel vostro mondo si veste e mette il velo,
perché fino alla morte veglie e dorma
con quello sposo che accetta ogni voto
che si conforma alla sua carità.
Da giovinetta, per seguirla, dal mondo
mi separai, e mi chiusi nel suo abito
e m'impegnai a seguire la sua regola.
Poi degli uomini, abituati più al male che al bene,
mi rapirono e portarono fuori dal convento:
Iddio poi sa quale fu la mia vita.
E quest'altro spirito accanto a me
alla mia destra e che risplende
di tutta la luce del nostro cielo,
ciò che dico di me, vale per lei;
fu suora, e allo stesso modo le fu tolta
dal capo il sacro velo.
Ma dopo che fu riportata al mondo
contro il suo volere ed i buoni usi,
in cuor suo non venne meno ai voti.
Questa è l'anima della grande Costanza
che dal secondo imperatore di Svevia
generò il terzo che fu l'ultimo».
Così mi disse, e poi cominciò a cantare
l' Ave Maria, e cantando svanì
come un sasso nell'acqua scura.
La mia vista, che la seguì finché
le fu possibile, dopo averla persa,
si volse al simbolo di maggior desiderio,
e si diresse tutta su Beatrice;
ma lei folgorò il mio sguardo così
che all'inizio non potei sopportarlo;
e ciò mi frenò dal domandare.
4Figure retoriche
- V. 1, Quel sol ... petto – Perifrasi per intendere Beatrice.
- Vv. 10 – 16, Quali per … parlar pronte – Lunga similitudine in cui Dante paragona le figure delle anime alle immagini che s'intravedono attraverso i vetri puliti o l'acqua limpida.
- V. 23, Dolce guida – Perifrasi per Beatrice.
- V. 26, püeril coto – “Coto” è latinismo che deriva dal verbo latino cogitare, cioè pensare, per cui il “coto” è da leggere come “pensiero”.
- V. 57, li nostri voti, e vòti … - Gioco ci parole tra “voti” e “vòti” per indicare il venire meno ai voti monastici.
- V. 69, primo foco – Perifrasi per Spirito Santo.
- Vv. 95 – 96, per apprender… la spuola – Metafora in cui il voto non osservato viene paragonato ad una tela la cui tessitura non viene portata a compimento.
- V. 97, inciela – Neologismo dantesco che vuol dire, come si può intuire, “portare in cielo”.
- V. 101, sposo che ogne voto accetta – Perifrasi per Cristo.
- V. 109, splendor – Sineddoche dove la caratteristica dell’anima indica l’anima stessa.
- V. 119, secondo vento di Soave – Perifrasi per Federico II di Svevia.