Canto XXII Inferno di Dante: testo, parafrasi e figure retoriche

Canto 22 dell'Inferno di Dante: testo, parafrasi, commento e figure retoriche del canto dei malversatori. Protagonisti, i diavoli Malebranche
Canto XXII Inferno di Dante: testo, parafrasi e figure retoriche
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1Canto XXII dell’Inferno: Introduzione

Il Canto XXII dell’Inferno è, senza ombra di dubbio, il più dinamico dell’intera Commedia: è un dato che si palesa chiaramente sin dai primi versi, all’interno dei quali si condensa una grande quantità di termini specialistici che rimandano alla guerra – e cosa esiste di più dinamico della guerra? Ci troviamo nell’ottavo cerchio, che prende il nome di Malebolge, in cui sono punite le anime fraudolente; nello specifico, il ventiduesimo canto si sofferma sulla quinta bolgia, dove si trovano i dannati che si sono macchiati del peccato di baratteria. 

Illustrazione del 1900 del canto XXII
Fonte: istock

Tema centrale del Canto è indubbiamente l’inganno, in tutte le sue sfaccettature, non solo in relazione alla colpa punita: barattieri e diavoli sono alle prese con malefatte, sotterfugi e vendette da attuare gli uni contro gli altri, in un’eterna gara in cui a vincere è chi riesce a dimostrarsi più astuto. Tutto è descritto tramite il registro grottesco, quel genere che viene caratterizzato dai connotati comici ma il cui scopo è quello di portare un messaggio etico: gli imbrogli che hanno costellato la vita dei barattieri e su cui si sfidano dannati e demoni conducono l’uomo ad una profonda bassezza morale, che porta anche il linguaggio utilizzato nel XXII Canto dell’Inferno ad abbassarsi. 

1.1Legame col Canto XI

Altro legame fra il Canto XII e XI del Paradiso di Dante è sicuramente il parallelismo che si nota nel discorso finale di Bonaventura da Bagnoregio. Come quello del canto precedente, il canto XII si conclude con un lungo elenco di beati inseriti da Dante nella schiera dei beati sapienti. Assume un significato altamente rilevante che l’ultimo santo citato da Bonaventura sia il francescano Gioacchino da Fiore (1130-1202), autore di diversi scritti profetici ben conosciuti dal Sommo Poeta (“lucemi dallato il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato”. La posizione del francescano accanto a Bonaventura riprende alla stessa maniera quella che fu di Sigieri di Brabante accanto a Tommaso nel Canto XII. Dante con questo vuole rappresentare un segno di conciliazione: infatti nella vita terrena Bonaventura aveva combattuto il profetismo di Gioacchino.

2Inferno, Canto XXII: i personaggi

2.1I diavoli Malebranche

A ben leggere il Canto XXII dell’Inferno, ci appare chiaro come i veri protagonisti del testo siano i diavoli Malebranche. Si tratta di dieci demoni, guidati da Barbariccia, che accompagnano Dante e Virgilio lungo la quinta bolgia: ad affidargli questo compito era stato, nel Canto XXI dell’Inferno, Malacoda, il loro capo. Ognuno di essi ha un nome ben definito e dai tratti carnevaleschi, che allude alle loro caratteristiche secondo il principio del nomen omen.  

Abbiamo quindi, nello specifico:

Alichino, che deriva da Hellequin, il demonio che aveva il compito di guidare la caccia infernale;
Calcabrina, colui cioè dalla peculiare velocità che gli permette di sfiorare la brina;
Cagnazzo, appellativo che fa riferimento in maniera dispregiativa ad un cane;
Libicocco, il cui nome è formato dall’unione di due venti, il Libeccio e lo Scirocco, e rimanda quindi alla sua velocità;
Draghignazzo, che deriva dall’incrocio delle parole “drago” e “ghigno”;
Ciriatto, nominativo che deriva dal greco chóiros, che significa porco;
Graffiacane, la cui caratteristica è quella cioè di graffiare come un cane;
Farfarello, il cui nome rimanda ai folletti notturni dei boschi;
Rubicante, nominativo che deriva dal latino rubens, rosso, e che rimanda quindi alla sua rabbia;
Barbariccia, il cui nome rimanda all’ispidezza della barba.

Con il loro atteggiamenti ingannevoli e scurrili, i diavoli sono in tutto e per tutto assimilati ai barattieri.  

2.2Ciàmpolo di Navarra

All’interno del Canto XXII dell’Inferno, l’unica anima tra quella dei barattieri a cui viene data parola è quella appartenente a Ciàmpolo di Navarra. Della sua persona sappiamo poco e nulla: Dante auctor ce lo descrive come un uomo al servizio di re Tebaldo II di Navarra, ruolo che lo portò a macchiarsi del peccato di baratteria. Lo stesso nome – Ciàmpolo – viene taciuto all’interno del testo e a riportarcelo sono gli antichi commentatori di Dante, secondo i quali il personaggio si chiamava Jean Paul (da cui il nome Gian Paolo, che toscanizzato diverrebbe Ciàmpolo). Diversi hanno ipotizzato una possibile identificazione del personaggio con Rutebeuf, ben noto trovatore-giullare duecentesco attivo alla corte di re Tebaldo. 

3Canto XXII Inferno: sintesi narrativa

Versi 1-30. Barbariccia, attraverso un orribile segnale, dà inizio alla marcia dei diavoli. Dante e Virgilio, guidati dai Malebranche, procedono lungo la bolgia, osservando con attenzione la pece bollente: all’interno di essa, molte anime di barattieri cercano di emergere con il solo dorso, pronti a tornarne al di sotto nel momento in cui si avvicinano i diavoli.

Versi 31-63. Uno dei dannati è meno rapido a rituffarsi sotto la pece: Grafficane lo afferra con l’uncino e lo estrae, mentre i demoni esortano Rubicante a scuoiarlo con gli artigli. Dante chiede a Virgilio di scoprirne l’identità: si tratta di Ciàmpolo di Navarra e in vita si è macchiato del peccato di baratteria alla corte di re Tebaldo II. Nonostante Ciriatto tenti di azzannarlo, Barbariccia protegge il dannato in modo tale da permettere a Virgilio di porgli altre domande.

Versi 64-96. Virgilio chiede allora a Ciàmpolo se con lui ci sono altre anime italiane: egli, dopo essere stato colpito da Draghignazzo, fa il nome di due barattieri sardi, Frate Gomita e Michele Zanche. Vorrebbe dire altro, ma teme che Farfarello si appresti ad uncinarlo sulla schiena.

Versi 97-151. Ciàmpolo dice allora a Dante e Virgilio che, se hanno il desiderio di vedere anime toscane o lombarde, egli potrà richiamarle, a patto che i demoni si allontanino un poco. Cagnazzo ritiene si tratti di un inganno escogitato dal dannato per riuscire a rituffarsi nella pece, e Alichino lo sfida: se proverà a scappare, lo raggiungerà volando. Ciàmpolo allora, con un salto, riesce a mettersi in salvo; Alichino lo segue, invano, e viene quindi attaccato da Calcabrina. I due, azzuffandosi, cadono nella pece bollente, dalla quale vengono estratti solo grazie all’intervento di Barbariccia e degli altri compagni. Dante e Virgilio colgono l’occasione per defilarsi.

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4Analisi del Canto XXII dell’Inferno: elementi tematici e narrativi

4.1La colpa: la baratteria

Dante Alighieri
Fonte: ansa

La colpa punita nel Canto XXII dell’Inferno è quella della baratteria: con questo termine si indica, in linea generale, ogni tipo di imbroglio; nello specifico, però, ci si riferisce qui a chi, ricoprendo una carica pubblica, la sfrutta per interessi privati, macchiandosi di concussione e/o peculato. È questa la pena di cui si sono macchiate le tre anime nominate – Ciàmpolo di Navarra, Frate Gomita e Michele Zanche – quella cioè che, attraverso la corruzione politica, arriva ad inquinare l’intera comunità. Diventa così palese l’aperto richiamo alla vicenda personale di Dante: l’autore, per via della baratteria di cui si sono macchiati i giudici fiorentini, è stato ingiustamente accusato e costretto ad abbandonare l’amata Firenze. 

Seppur il ventiduesimo Canto dell’Inferno si fondi sul comico e sul grottesco, la pena a cui sono sottoposti i barattieri non manca di tragicità: essi sono, infatti, immersi nella pece nera e bollente, feriti e torturati dai diavoli qualora tentassero di salire in superficie per trovare un po’ di sollievo. La condanna richiama, per analogia, la bassezza della colpa di cui si sono macchiati: la pece è infatti viscida come la baratteria, e arriva a coprire interamente i loro corpi così come i barattieri hanno tentato di coprire le proprie malefatte. 

5Parafrasi del canto XXII dell’Inferno

Testo

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;


corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini
, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;


quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;


né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.


Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.


Pur a la pegola era la mia ’ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch’entro v’era incesa.


Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena,
che s’argomentin di campar lor legno,


talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’alcun de’ peccatori il dosso
e nascondea in men che non balena.


E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e l’altro grosso,


sì stavan d’ogne parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.


I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’elli ’ncontra
ch’una rana rimane e l’altra spiccia;


e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ’mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra.


I’ sapea già di tutti quanti ’l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.


«O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»,
gridavan tutti insieme i maladetti.


E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi».


Lo duca mio li s’accostò allato;
domandollo ond’ei fosse, e quei rispuose:
«I’ fui del regno di Navarra nato.


Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.


Poi fui famiglia del buon re Tebaldo:
quivi mi misi a far baratteria;
di ch’io rendo ragione in questo caldo».


E Ciriatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come l’una sdruscia.


Tra male gatte era venuto ’l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia,
e disse: «State in là, mentr’io lo ’nforco».


E al maestro mio volse la faccia:
«Domanda», disse, «ancor, se più disii
saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia».


Lo duca dunque: «Or dì : de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?». E quelli: «I’ mi partii,


poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss’io ancor con lui coperto,
ch’i’ non temerei unghia né uncino!».


E Libicocco «Troppo avem sofferto»,
disse; e preseli ’l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.


Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ’l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.


Quand’elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
domandò ’l duca mio sanza dimoro:


«Chi fu colui da cui mala partita
di’ che facesti per venire a proda?».
Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,


quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.


Danar si tolse, e lasciolli di piano,
sì com’e’ dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.


Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.


Omè, vedete l’altro che digrigna:
i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
non s’apparecchi a grattarmi la tigna».


E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: «Fatti ’n costà, malvagio uccello!».


«Se voi volete vedere o udire»,
ricominciò lo spaurato appresso
«Toschi o Lombardi, io ne farò venire;


ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch’ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,


per un ch’io son, ne farò venir sette
quand’io suffolerò, com’è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette».


Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,
crollando ’l capo, e disse: «Odi malizia
ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!».


Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: «Malizioso son io troppo,
quand’io procuro a’ mia maggior trestizia».


Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di gualoppo,


ma batterò sovra la pece l’ali.
Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali».


O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse;
quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.


Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.


Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!».


Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
non potero avanzar: quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto:


non altrimenti l’anitra di botto,
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.


Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;


e come ’l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.


Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.


Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate l’ali sue.


Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l’altra costa
con tutt’i raffi, e assai prestamente


di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li ’mpaniati,
ch’eran già cotti dentro da la crosta;


e noi lasciammo lor così ’mpacciati.


Parafrasi

Già mi capitò di vedere i cavalieri mettersi in marcia, lanciarsi in combattimento e schierarsi in parata, e talvolta ritirarsi per mettersi in salvo; di vedere soldati a cavallo nella vostra terra, o aretini, e di vedere fare scorrerie, combattere nei tornei e scontrarsi nelle giostre; a volte con trombe, altre con campane, oppure con tamburi e con segnali inviati dai castelli, con strumenti nostrani o stranieri; ma mai mi capitò di vedere un così strano strumento a fiato mettere in moto cavalieri o fanti, né una nave muoversi su segnalazioni simili venuti dalla Terra o dalle Stelle. Noi camminavamo con i dieci demoni: ahi che terribile compagnia! Ma in chiesa si sta con i santi, e in taverna con con i furfanti. La mia attenzione era rivolta solo alla pece, per vedere ogni aspetto della bolgia e dei dannati che dentro essa ardevano. Come i delfini, quando lanciano segnali ai marinai inarcando la schiena, così che provvedano a mettere in salvo la loro nave, così talvolta, per alleviare la pena, alcuni peccatori mostravano la schiena, per reimmergerla in men che non si dica. E come sulla superficie dell’acqua di un fosso se ne stanno i ranocchi con solo la loro testa fuori, celando così le zampe e il resto del corpo, così stavano da tutte le parti i peccatori; ma non appena si avvicinava Barbariccia, subito si ritraevano dentro la pece bollente. Io vidi, e ancora il mio cuore prova un senso di raccapriccio, un dannato aspettare così, come accade quando una rana rimane ferma mentre un’altra salta; e Graffiacane, che gli era di fronte, con il suo uncino gli afferrò i capelli impastati [di pece] e lo tirò fuori, tanto che mi parve una lontra. Io conoscevo già il nome di tutti i demoni, perché li annotai quando furono chiamati  e, quando si chiamarono tra di loro, prestai attenzione. «Oh Rubicante, fa’ in modo di mettergli addosso i tuoi unghioni, così da scuoiarlo!» gridarono tutti insieme quei maledetti. Ed io dissi [a Virgilio]: «Maestro mio, se puoi, fai in modo di sapere chi è lo sventurato caduto nelle mani dei suoi nemici». La mia guida gli si avvicinò di fianco; gli domandò di dove fosse, e questi rispose: «Io nacqui nel regno di Navarra. Mia madre, che mi aveva dato alla luce da un uomo dissoluto, distruttore di sé e delle sue cose, mi mise a servizio di un signore. Poi fui cortigiano del valente re Tebaldo: là mi misi a ad esercitare la baratteria; di ciò rendo conto in questa pece calda». E Ciriatto, dalla cui bocca uscivano una zanna per parte come ad un cinghiale, gli fece sentire come una sola [zanna] poteva lacerare. Tra gatte malvagie era capitato il topo; ma Barbariccia lo avvolse nelle sue braccia, e disse: «State lontani, mentre io lo infilzo». E al mio maestro rivolse quindi la faccia: «Fagli delle domande» disse, «se desideri sapere altro da lui, prima che qualcuno lo faccia a pezzi». La mia guida dunque [disse]: «Ora dimmi: tra tutti i peccatori sotto la pece, ne conosci tu qualcuno che sia stato italiano?». E egli: «Io mi allontanai, poco fa, da uno che fu di una regione vicina [all’Italia]. Potessi stare ancora immerso con lui, così da non temere né unghia né uncino!» E Libicocco disse: «Troppo abbiamo pazientato»; e gli afferrò il braccio con l’uncino, così che, lacerandolo, gliene portò via un brandello. Anche Draghignazzo lo volle colpire in basso alle gambe; per cui il loro decurione, si volse tutto intorno con espressione minacciosa. Quando i demoni si furono un poco calmati, al peccatore, che ancora guardava la sua ferita, la mia guida domandò senza esitare: «Chi è colui dal quale dici di esserti malauguratamente separato per giungere a riva?». Ed egli rispose: «Fu frate Gomita, quello di Gallura, ricettacolo di ogni tipo di frode, che ebbe in suoi potere i nemici del suo signore, e lì tratto in modo tale che ciascuno di essi mostra la propria gratitudine. Prese da loro del denaro e li liberò con processo sommario, come egli stesso dice; e anche negli altri suoi incarichi fu barattiere non mediocre, ma sopraffino. Insieme a lui sta abitualmente anche il signor Michele Zanche di Logudoro; e di parlare di Sardegna non si stancano mai le loro lingue. Ohimé, vedete l’altro [demone] che digrigna i denti: io continuerei anche a parlare, ma temo che egli si stia preparando a grattarmi la rogna». E il grande preposto, rivolto a Farfarello che stava stralunando gli occhi per ferirlo, disse: «Fatti più in là, uccellaccio maligno». «Se voi volete vedere o sentire» riprese il dannato spaurito «anime Toscane o Lombarde, io ne farò venire qualcuna; ma i Malebranche stiano un po’ distanti, così che essi non temano le loro vendette; e io, stando seduto in questo stesso luogo, per uno che io sono, ne farò arrivare sette non appena fischierò, come è nostra abitudine fare quando qualcuno si tira a galla». Cagnazzo a queste parole alzò il muso, scuotendo il capo, e disse: «Senti che astuzia si è inventato per gettarsi nella pece!» Al che egli [Ciàmpolo], che aveva in serbo molti inganni, rispose: «Sarei davvero troppo malizioso se procurassi ai miei compagni un tormento maggiore». Alichino non si trattenne e, in opposizione agli altri demoni, disse all’anima: «Se tu ti getterai, io non ti verrò dietro di corsa, ma volerò sopra la pece. Lasciamo la sommità dell’argine e ci sia da scudo il pendio di roccia, e vediamo se da solo vali più di tutti noi». Oh tu che leggi, ora ascolterai un nuovo gioco: ogni demonio rivolse gli occhi verso l’altro pendio della costa; per primo colui che era più restio a ciò. Il Navarrese, ben colse il momento favorevole: puntò i piedi a terra e in un istante saltò, liberandosi dal preposto [Barbariccia]. Al che ogni demone si sentì punto dal rimorso, ma più di tutti colui che fu la causa dell’errore;
Perciò si mosse e gridò: «Tu sei preso!»
Ma gli servì a poco: perché le ali non poterono superare la paura [di Ciampòlo]: questi si immerse e l’altro risollevò il petto volando verso l’alto: non diversamente l’anatra, improvvisamente, quando il falco si avvicina, si tuffa sott’acqua ed egli ritorna su irritato e sconfitto. Calcabrina, adirato per la beffa, lo inseguì volando, sperando che quello [Ciàmpolo] sopravvivesse per poter attaccare lite; e non appena il barattiere scomparve, rivolse i propri artigli contro il suo compagno, e si avvinghiò con lui sopra il fossato. Ma l’altro si comportò da bravo sparviero feroce ad artigliarlo con decisione, ed entrambi caddero nel mezzo del bollente stagno. Il calore li fece subito dividere; ma non riuscirono a sollevarsi [dalla pece], tanto ne avevano le ali invischiate. Barbariccia, addolorato insieme agli altri compagni, ne fece volare quattro sulla  riva opposta, tutti dotati di uncini, e assai velocemente, da una parte e dall’altra, scesero nei punti loro assegnati; porsero gli uncini verso i due invischiati che erano già scottati dentro la superficie vischiosa [della pece]; e noi li lasciammo in quell’impaccio.

6Figure retoriche nel Canto XXII dell’Inferno

  • v. 9, « e con cose nostrali e con istrane»: allitterazione
  • vv. 19-24, «Come i dalfini, quando fanno segno / a’ marinar con l’arco de la schiena, che s’argomentin di campar lor legno, // talor così, ad alleggiar la pena, / mostrav’alcun de’ peccatori il dosso / e nascondea in men che non balena»: similitudine
  • v. 21, «legno»: sineddoche per indicare la nave
  • vv. 15-18, «E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso / stanno i ranocchi pur col muso fuori, / sì che celano i piedi e l’altro grosso, // sì stavan d’ogne parte i peccatori»: similitudine
  • v. 30, «bollori»: metonimia per indicare la pece
  • v. 77, «sua ferita»: sineddoche (singolare per il plurale)

7Guarda il video sul XXII canto dell'Inferno

    Domande & Risposte
  • Chi viene punito nel XXII canto dell'Inferno?

    Vengono puniti i dannati che si sono macchiati del peccato di baratteria.

  • Chi sono i diavoli Malebranche?

    Sono dieci demoni, guidati da Barbariccia, che accompagnano Dante e Virgilio lungo la quinta bolgia.

  • Chi è l'unica anima che parla, fra i barattieri?

    Ciàmpolo di Navarra.