Canto XVI del Paradiso: testo, parafrasi, commento e figure retoriche
Indice
1Canto XVI del Paradiso: trama e struttura
Il Canto XVI riprende ed amplia il tema già trattato nel Canto XV della modestia e dell’onestà nel comportamento dei fiorentini di un tempo ma allarga lo spettro del discorso dall’ambito famigliare a quello cittadino dando la misura di come la città di Firenze sia cambiata rispetto a quella antica, andando incontro ad un degrado civile e morale dato dall’ingresso di gente forestiere e dalla dedizione dei fiorentini ai commerci, cosa che la morale cristiana trovava moralmente esecrabile.
Una volta scoperto che l’interlocutore che ha di fronte è un suo antico avo morto durante una crociata, Dante si sente pieno di orgoglio per la propria ascendenza nobile e, benché sia consapevole di quanto sia futile l’orgoglio dato dalla nobiltà di sangue, non riesce a trattenersi dal mostrare un particolare rispetto per l’antenato dandogli del “Voi” invece del più colloquiale “Tu”; la nobiltà, infatti, è come un mantello che ogni giorno si accorcia e che quindi va mantenuto con un corretto agire, e dimostrandosi degni del proprio blasone senza macchiarlo d’ignominia.
Dante chiede a Cacciaguida di raccontargli del suo anno di nascita e di quali fossero le famiglie nobili dei suoi tempi.
L’anima beata si ravviva alle parole di Dante e comincia a parlare in una lingua che era il fiorentino parlato ai suoi tempi, e gli spiega che nacque quando il pianeta Marte era passato per 580 volte nella costellazione del Leone: un’indicazione piuttosto oscura da cui si può però desumere che il suo anno di nascita sia il 1091. Di preciso nacque a Porta san Pietro, dove corre l’ultima frazione del palio annuale di Firenze: l’indicazione non è di poco conto, perché tradizionalmente quella viene indicata come la zona più antica della città abitata dai discendenti dei suoi fondatori che erano antichi romani.
Cacciaguida ritorna con la memoria alla Firenze dei suoi tempi. Una città piccola in cui anche il più umile degli artigiani era fiorentino di sangue e gli abitanti della città ancora non si erano mescolati con quelli del contado: una mescolanza che ha fatto degradare la situazione morale di Firenze.
Se la Chiesa, dice l’anima beata, non avesse provato a sostituirsi all’autorità imperiale i fiorentini non si sarebbero uniti con i bifolchi del contado, e non avrebbero iniziato a fare i cambiavalute e i prestatori di denaro: pratiche che hanno sconvolto la città provocando la rovina delle antiche famiglie nobiliari. È proprio il mescolarsi delle genti diverse che provoca la rovina delle città, è stato così nei tempi antichi, e la stessa cosa avviene nelle città contemporanee: la gente di fuori fa male come il continuare a mangiare nonostante non si sia ancora digerito il pasto precedente, e le grandi città possono cadere più velocemente e peggio di quelle piccole. Le cose umane, tutte, sono destinate a finire, ma alcune durano più della stessa vita umana, che è breve, e perciò danno l’illusione di essere infinite, ma non è così, e Firenze stessa è destinata a cadere.
Quindi Cacciaguida passa in rassegna le antiche ed autentiche famiglie fiorentine dei suoi tempi, nobili casati caduti in rovina e sostituiti alla guida della città da altri provenienti da fuori città e che hanno la responsabilità di aver precipitato, per la prima volta, Firenze nel vortice delle guerre civili e nel declino morale e militare.
Il Canto si può quindi suddividere in quattro parti:
- Vv. 1-27: Orgoglio di Dante per il proprio casato, e curiosità per la Firenze antica.
- Vv. 24-48: Cacciaguida rivela a Dante il suo anno di nascita e racconta della Firenze dei suoi tempi.
- Vv. 49-87: Cacciaguida spiega a Dante le cause della decadenza di Firenze.
- Vv. 88-154: Rassegna delle antiche famiglie fiorentine; la loro decadenza è quella della città.
2Il Canto XVI del Paradiso e le cause della decadenza di Firenze
Come nel Canto XV, anche l’ossatura argomentativa del Canto XVI si muove sulla linea del confronto tra i tempi antichi e quelli moderni, in cui si assiste ad un degrado che è morale e sociale allo stesso tempo.
Se il Canto XV aveva evidenziato come le antiche virtù domestiche della frugalità, della famiglia e della modestia avevano lasciato il posto al lusso e alla vanità, il Canto XVI illustra come l’arrivo di nuovi abitanti provenienti da fuori città, ha portato alla perdita degli antichi valori e alla rovina delle antiche famiglie che governavano la città al tempo di Cacciaguida.
L’antenato di Dante è conscio del fatto che tutte le cose umane sono destinate ad invecchiare e cadere, e che le città, compresa quella di Firenze con le sue stirpi nobiliari, non fanno differenza (vv. 79-87). E sempre la causa di questa decadenza è da ricercarsi nell’arrivo di persone forestiere, che si confondono (v. 67) con gli abitanti originari.
C’è anche un’altra causa al declino di Firenze, che è collegata con la prima e l’alimenta, che è la cupidigia. In particolare qui Dante individua nella Chiesa, ‘la gente ch’ al mondo più traligna’ (v. 58), e nella sua competizione con l’Impero la molla principale che ha dato l’avvio al degrado morale della città di Firenze, dove sono cominciati ad arrivare stranieri dediti al commercio e al prestito di denaro, attività considerate poco oneste e che hanno corrotto anche gli stessi fiorentini, che hanno cominciato a praticarle (vv. 58-61).
Non è la prima volta che nella Commedia si trovano attacchi contro le attività dei mercanti e il loro lusso, basti pensare al celebre passaggio su ‘la gente nova e i subiti guadagni’ che già in Inf. XVI, 73 individuava nei forestieri e nella ricchezza smodata la causa del degrado morale della città toscana: si tratta quindi di un tema ricorrente, che l’autore agita con forza per il suo evidente peso morale.
2.1Dante, l'età comunale e le due civiltà
Per procedere con un’analisi più approfondita dei contenuti del Canto bisogna sempre tenere a mente del doppio ruolo di Dante, che è contemporaneamente autore e protagonista della storia che narra e, perciò, anche responsabile delle opinioni dei vari personaggi che mette in scena.
Per bocca dell’antenato Cacciaguida, Dante esprime una ferma condanna della società a lui contemporanea contrapponendole una società antica retta dai valori della modestia e della virtù di cui lui ha forte nostalgia. Tempi in cui la città di Firenze era piccola, i cui cittadini erano tutti fiorentini d’origine e guidati da una nobiltà valorosa che conquistava i suoi meriti sul campo di battaglia. Una società che, con i suoi valori, è stata spazzata via dall’arrivo di forestieri abietti, dediti al prestito di denaro e ansiosi di arricchirsi.
È storia che la città di Firenze, negli anni in cui la vive Dante, è protagonista di una vertiginosa crescita demografica ed economica, dovuta principalmente all’attività dei suoi mercanti e all’intraprendenza dei suoi banchieri, che si arricchiscono prestando soldi al Santa Sede; l’emergente ceto mercantile, con i suoi nuovi valori, prende il posto dell’antica nobiltà terriera alla guida della città rivoluzionando il suo tradizionale assetto sociale: in pratica, la nuova società mercantile si sostituiva a quella feudale.
Una sostituzione che a Dante risultava sgradita, in quanto non solo segnava la presa di potere di un ceto arricchitosi in modi che la morale cristiana dell’epoca giudicava immorali e che, dal suo punto di vista, dava il sintomo di un complessivo degrado di tutta la società. Questa, infatti, si ritrovava ora ad essere guidata da plebei stranieri arricchitisi, che avevano dato il via alle guerre civili in Firenze (vv. 145-154) e che si erano sostituiti alla vecchia nobiltà guerriera; una città in cui la moralità aveva perso valore ed era stata sostituita dalla disonestà e in cui, evidentemente, il discendente di un valoroso combattente cristiano come Dante non poteva che essere fuori posto, e condannato all’esilio.
2.2Dante ghibbelin fuggiasco
Il canto 16° del Paradiso è considerato un canto di trapasso fra la Firenze antica e quella contemporanea e compone insieme al quindicesimo e al diciassettesimo canto un "trittico", una trilogia potremmo dire, nel quale Dante incontra il suo trisavolo Cacciaguida, e con lui parla a lungo della decadenza di Firenze e della propria missione futura. In particolare in questo canto il Sommo Poeta stila un lungo elenco di nomi di famiglie illustri che, pur ostentando potenza, erano già avviate sulla strada del declino. La rievocazione culmina con il richiamo alle due casate degli Amidei e Buondelmonti dal cui conflitto derivò la scissione e la lotta fra Ghibellini e Guelfi. Una divisione che lasciò un’impronta importante su Dante che passò dalla fazione dei Guelfi a quella dei Ghibellini al punto che Ugo Fosolo scriverà di lui: “E tu prima, Firenze, udivi il carme Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco”.
3Testo e parafrasi del Canto XVI del Paradiso
Testo
O poca nostra nobiltà di sangue,
se gloriar di te la gente fai
qua giù dove l’affetto nostro langue,
mirabil cosa non mi sarà mai:
ché là dove appetito non si torce,
dico nel cielo, io me ne gloriai.
Ben se’ tu manto che tosto raccorce:
sì che, se non s’appon di dì in die,
lo tempo va dintorno con le force.
Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie,
in che la sua famiglia men persevra,
ricominciaron le parole mie;
onde Beatrice, ch’era un poco scevra,
ridendo, parve quella che tossio
al primo fallo scritto di Ginevra.
Io cominciai: «Voi siete il padre mio;
voi mi date a parlar tutta baldezza;
voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.
Per tanti rivi s’empie d’allegrezza
la mente mia, che di sé fa letizia
perché può sostener che non si spezza.
Ditemi dunque, cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
che si segnaro in vostra puerizia;
ditemi de l’ovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti
tra esso degne di più alti scanni».
Come s’avviva a lo spirar d’i venti
carbone in fiamma, così vid’io quella
luce risplendere a’ miei blandimenti;
e come a li occhi miei si fé più bella,
così con voce più dolce e soave,
ma non con questa moderna favella,
dissemi: «Da quel dì che fu detto ‘Ave’
al parto in che mia madre, ch’è or santa,
s’alleviò di me ond’era grave,
al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.
Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annual gioco.
Basti d’i miei maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,
più è tacer che ragionare onesto.
Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e ‘l Batista,
eran il quinto di quei ch’or son vivi.
Ma la cittadinanza, ch’è or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne l’ultimo artista.
Oh quanto fora meglio esser vicine
quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver vostro confine,
che averle dentro e sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha l’occhio aguzzo!
Se la gente ch’al mondo più traligna
non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,
tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
là dove andava l’avolo a la cerca;
sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;
sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,
e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.
Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade,
come del vostro il cibo che s’appone;
e cieco toro più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia
più e meglio una che le cinque spade.
Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,
udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.
Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.
E come ‘l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:
per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.
Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
già nel calare, illustri cittadini;
e vidi così grandi come antichi,
con quel de la Sannella, quel de l’Arca,
e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.
Sovra la porta ch’al presente è carca
di nova fellonia di tanto peso
che tosto fia iattura de la barca,
erano i Ravignani, ond’è disceso
il conte Guido e qualunque del nome
de l’alto Bellincione ha poscia preso.
Quel de la Pressa sapeva già come
regger si vuole, e avea Galigaio
dorata in casa sua già l’elsa e ‘l pome.
Grand’era già la colonna del Vaio,
Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
e Galli e quei ch’arrossan per lo staio.
Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
era già grande, e già eran tratti
a le curule Sizii e Arrigucci.
Oh quali io vidi quei che son disfatti
per lor superbia! e le palle de l’oro
fiorian Fiorenza in tutt’i suoi gran fatti.
Così facieno i padri di coloro
che, sempre che la vostra chiesa vaca,
si fanno grassi stando a consistoro.
L’oltracotata schiatta che s’indraca
dietro a chi fugge, e a chi mostra ‘l dente
o ver la borsa, com’agnel si placa,
già venìa sù, ma di picciola gente;
sì che non piacque ad Ubertin Donato
che poi il suocero il fé lor parente.
Già era ‘l Caponsacco nel mercato
disceso giù da Fiesole, e già era
buon cittadino Giuda e Infangato.
Io dirò cosa incredibile e vera:
nel picciol cerchio s’entrava per porta
che si nomava da quei de la Pera.
Ciascun che de la bella insegna porta
del gran barone il cui nome e ‘l cui pregio
la festa di Tommaso riconforta,
da esso ebbe milizia e privilegio;
avvegna che con popol si rauni
oggi colui che la fascia col fregio.
Già eran Gualterotti e Importuni;
e ancor saria Borgo più quieto,
se di novi vicin fosser digiuni.
La casa di che nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che v’ha morti,
e puose fine al vostro viver lieto,
era onorata, essa e suoi consorti:
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
le nozze sue per li altrui conforti!
Molti sarebber lieti, che son tristi,
se Dio t’avesse conceduto ad Ema
la prima volta ch’a città venisti.
Ma conveniesi a quella pietra scema
che guarda ‘l ponte, che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace postrema.
Con queste genti, e con altre con esse,
vid’io Fiorenza in sì fatto riposo,
che non avea cagione onde piangesse:
con queste genti vid’io glorioso
e giusto il popol suo, tanto che ‘l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,
né per division fatto vermiglio».
Parafrasi
che spinge la gente a gloriarsi
sulla Terra, dove i nostri desideri sono erronei,
è una cosa di cui non mi stupirò mai:
infatti dove i nostri sentimenti non sono fragili,
cioè in Paradiso, io me ne gloriai.
La nobiltà è un manto che s'accorcia presto:
e così, se ogni giorno non s'aggiunge stoffa,
il tempo gli gira attorno con le forbici.
Con quel “voi” che per la prima volta s'usò a Roma,
e che i romani sono i più restii a usare,
ricominciai a parlare;
e Beatrice, che stava da parte,
con il suo riso mi ricordò colei che tossì
al primo errore di Ginevra.
Cominciai:« Voi siete il mio genitore;
e mi date coraggio per parlare con sicurezza;
mi esaltate al punto che io non sono più io.
Da tanti punti si riempie di gioia
la mia mente, che si rallegra con sé stessa
perché può sostenerla tutta senza cedere.
Perciò ditemi, mio caro avo,
chi furono i vostri antenati e quali anni
si ricordano della vostra infanzia;
ditemi del gregge di san Giovanni
quanto era grande, e chi erano le persone
più degne delle alte cariche».
Come riprende luce al soffio del vento
il carbone nella fiamma, così vidi quella
luce risplendere alle mie domande;
e come ai miei occhi divenne più splendente,
così con voce più dolce e melodiosa,
ma non con il linguaggio moderno,
mi disse: «Dal giorno dell'Annunciazione
a quello in cui mia madre, che ora è santa,
mi partorì,
cinquecentottanta volte con la costellazione del Leone
questo pianeta si ricongiunse
scaldandosi sotto la sua zampa.
Io e i miei antenati nascemmo nel luogo
dove si trova l'ultimo sestiere
di quelli che corrono per il palio annuale.
Dei miei antenati basta dire questo:
di chi fossero e delle loro origini,
è più onesto tacere che ragionarne.
Tutti quelli che al tempo erano in grado
di portare le armi tra la statua di Marte e il Battistero,
erano il quinto di quelli che ora sono vivi.
Ma la cittadinanza, che ora s'è mischiata con quella
di Campi Bisenzio, di Certaldo e di Figline,
al tempo era pura fino all'ultimo artigiano.
Quanto sarebbe stato meglio che fossero rimaste solo vicine
quelle genti che io dico, e se aveste mantenuto
il vostro confine al Galluzzo e al Trespiano,
che farle entrare e subire la presenza
dei cafoni di Aguglione e di Signa,
che hanno l'occhio lungo per loschi commerci!
Se quella gente che più devia dalla retta via
non fosse stata matrigna all’Imperatore,
ma benevola come una madre con il figlio,
quei fiorentini che mercanteggiano e cambiano valute
son così infimi che sarebbero tornati a Simifonti,
lì dove i loro avi andavano ad elemosinare;
Montemurlo sarebbe ancora dei Conti;
e i Cerchi nella pieve d’Acone,
e forse anche i Buondelmonte in Val di Grieve.
Da sempre la mescolanza delle persone
fu la causa della rovina delle città,
così come lo è il mangiar troppo;
ed il toro accecato cade prima
del cieco agnello; e spesso ferisce
più una spada che cinque.
Se tu guardi a Luni e a Urbs Salvia,
e ai loro destini, e come le hanno
imitate Chiusi e Senigallia,
ascoltare come le famiglie rovinino
non ti sembrerà una cosa né nuova né strana.
Le cose umane hanno tutte una fine,
proprio come voi; ma alcune sembrano non averla
perché durano molto, mentre la vita umana è breve.
E come la rotazione della luna
copre e scopre le spiagge senza fine,
così fa la Fortuna con Firenze:
perciò non deve stupirti
quello che ti dirò dei nobili fiorentini
la cui fama è offuscata da tempo.
Vidi gli Ughi e i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
illustri cittadini, anche se declinavano le loro famiglie;
e li vidi così potenti com’erano i loro avi,
i Sannella, i dell’Arca,
e i Soldanieri, gli Ardinghi e i Bostichi.
Su quella porta che oggi è gravata
dalla nuova trivialità della gente appena arrivata
che presto farà la rovina dello Stato,
c’erano quei Ravignani, da cui discese
il conte Guido e tutti gli altri che
del nobile Bellincione hanno poi preso il nome.
Quelli della Pressa che già avevano capito
come si deve governare, e avevano i Galigai
già l’elsa ed il pomo dorato in casa.
Già era gande la colonna dei Pigli,
Sacchetti, Giuochi, Fifanti, Barucci
e Galli e quelli che si vergognano per la truffa dello staio.
Il ceppo da cui nacquero i Calfucci
era già grande, e già si erano elevati
alle cariche pubbliche i Sizii e gli Arrigucci.
Oh, quanti ne vidi io vinti
dalla loro superbia! E lo stemma delle palle d’oro
faceva illustre Firenze per le loro imprese.
Così facevano i padri di coloro
che, a causa della vostra sede vescovile sempre vuota,
s’ingrassano stando seduti al concistoro.
Il tracotante gruppo di quelli che diventano superbi
con gli umili, e davanti a chi mostra i denti
oppure il denaro, diventa un agnello,
già compariva, ma erano di modesta origine;
e non piacque a Ubertino Donati
che il suocero l’imparentasse con quelli.
Già i Caponsacco abitavano nella zona di Mercato Vecchio
venuti da Fiesole, e già erano considerati
buoni cittadini i Giudi e gli Infangati.
Ti dirò una cosa incredibile ma vera:
nella città antica si entrava dalla porta
che prendeva il nome dalla famiglia della Pera.
Tutti quelli che portano le insegne
del gran barone il cui nome e l’onore
si celebra nel giorno di san Tommaso,
da lui ebbe l’onore cavalleresco e il privilegio feudale;
nonostante avvenga che sia il popolo a raccogliersi
oggi sotto colui che si fregia di quel simbolo.
Già c’erano i Gualterotti e gli Importuni;
e Borgo Santi Apostoli sarebbe stato più quieto,
se non avesse acquistato nuovi vicini.
La casa da cui nacquero i vostri lutti,
per il giusto disdegno che vi ha rovinati,
e che messo fine al vostro vivere sereno,
era onorata, e con essa i suoi alleati:
O Buondelmonte, quanto male facesti a fuggire
quelle nozze per seguire i consigli di altri!
Ora molti sarebbero felici, invece che tristi,
se Dio t’avesse concesso all’Ema
la prima volta che venisti in città.
Ma fu fatalità che vicino a quella pietra
che guarda Ponte Vecchio, che Firenze
uccidesse la sua stessa pace.
Con questi casati, e con altri,
io vidi Firenze in questa pace,
che non c’era ragione che piangesse.
Insieme a questi nobili casati vidi
i fiorentini gloriosi e giusti, tanto che il giglio
non era mai stato messo al contrario,
né fatto rosso per le lotte interne».
4Figure retoriche del Canto XVI del Paradiso
- V. 16, padre mio: perifrasi per indicare che Cacciaguida era un suo progenitore.
- V. 22, primizia: perifrasi per indicare il fatto che Cacciaguida sia un suo antenato.
- V. 25, l'ovil: metafora in cui i fiorentini vengono descritti come il gregge di san Giovanni Battista, santo patrono della città.
- Vv. 28-30, Come … blandimenti: similitudine tra il fuoco di una brace che si ravviva con un po' d'aria e la luce dell'anima beata.
- Vv. 34-39, Da quel dì … pianta: si tratta di una complicata perifrasi con cui il poeta indica la data di nascita di Cacciaguida, e la cui comprensione è legata ad una serie di fatti cronologici. Dal giorno dell'Annunciazione dell'Arcangelo Gabriele alla Vergine fino a quello della nascita di Cacciaguida il pianeta Marte era entrato in congiunzione con la costellazione del Leone per 580 volte; secondo le informazioni di Dante, il moto rivoluzionario di Marte avviene in 687 giorni terrestri, in questo modo si calcola che l'antenato di Dante sia nato nel 1091.
- Vv. 40-42, Li antichi … gioco: altra complicata perifrasi che indica il luogo di residenza della famiglia di Cacciaguida, che si trovava nell'ultima parte che deve percorrere chi partecipa al palio di Firenze. In questo modo si può comprendere che la zona cui fa riferimento è quella tra Porta san Pietro e il Mercato Vecchio.
- V. 59, Cesare; noverca: Cesare è una sineddoche per indicare l’intero istituto imperiale; noverca è un latinismo che Dante riprende dalle Metamorfosi di Ovidio dove Fedra, perfida matrigna di Ippolito, viene definita con quel termine.
- V. 70, avaccio: latinismo formato sul calco del latino vivacius, cioè presto.
- Vv. 82-83, E come … sanza posa: metafora con cui il la ciclicità della Fortuna viene paragonata all’andamento delle maree causato dalla luna.
- Vv. 102, dorata … pome: perifrasi che indica che la famiglia era già stata insignita del cavalierato, il cui simbolo era un’elsa e un pomo dorati.
- V. 105, quei … staio: perifrasi con cui si allude alla famiglia dei Chiaramontesi, protagonista di uno scandalo di cui si parla in Purg. XII, 105.
- V. 108, curule: perifrasi che utilizza un latinismo, cioè il riferimento alla sedia curule usata da alcuni magistrati dell’antica Roma, per indicare che quelle famiglie avevano già avuto accesso a delle cariche pubbliche.
- V. 110, palle de l’or: perifrasi che indica lo stemma della famiglia dei Lamberti.
- V. 115, indraca: è un dantismo che sta ad indicare il gesto di qualcuno che si fa drago, cioè forte e potente, nei confronti di qualcun altro.
- V. 125, picciol cerchio: perifrasi che indica lo stretto cerchio delle antiche mura cittadine.
- V. 143, conceduto ad Ema: l’Ema è un torrente che affluisce nella Greve, con questa metafora Cacciaguida dice che sarebbe stato meglio se Buondelmonte, che fa parte di una delle nuove famiglie arrivate a Firenze, fosse morto annegato prima di entrare in città.