Canto XIII Inferno di Dante: testo, parafrasi e figure retoriche
Indice
- Introduzione al canto XIII dell’Inferno
- I personaggi del canto 13 dell'Inferno
- Canto XIII Inferno: sintesi narrativa
- Analisi del Canto XIII dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
- Canto XIII dell’Inferno: testo e parafrasi
- Figure retoriche nel Canto XIII dell’Inferno
- Guarda il video sul Canto XIII dell'Inferno
- Concetti chiave
1Introduzione al canto XIII dell’Inferno
Il Canto XIII dell’Inferno si svolge all'alba del 9 aprile del 1300 (secondo altri studiosi siamo invece al 26 marzo) nel secondo girone del settimo cerchio, nel quale sono punite le anime dei violenti contro sé stessi, nella persona (i suicidi) e nelle cose (gli scialacquatori). Dante descrive un bosco fitto, buio, tetro, terrificante, dove non crescono piante e fiori ma solo intricati e neri cespugli e dove abitano mostruose creature come le Arpie e le cagne infernali.
Il Canto è suddivisibile in tre macro-sequenze:
- vv. 1-108: i suicidi e, nello specifico, l’anima di Pier della Vigna;
- vv. 109-129: l’irruzione degli scialacquatori, qui rappresentati dalle anime di Lano da Siena e Iacopo di Sant’Andrea;
- vv. 130-151: spazio nuovamente ai suicidi, con l’anima di un anonimo fiorentino.
Come si può ben notare, il nucleo tematico del XIII Canto dell’Inferno è rappresentato dal personaggio di Pier della Vigna, a cui sono destinati 78 versi su 151. Attraverso questa figura, Dante può esprimere la sua aperta condanna al suicidio, in piena opposizione alla filosofia stoica (vedi paragrafo 4.1), e continuare a sviluppare la sua polemica contro la corruzione delle corti.
2I personaggi del canto 13 dell'Inferno
2.1Pier della Vigna
Nel Canto XIII dell’Inferno viene dato abbondante spazio all’anima di un suicida: si tratta di Pier della Vigna, noto anche come Pier delle Vigne. Nato a Capua intorno al 1190, egli entrò – nel 1220 – alla corte di Federico II di Svevia, assumendo inizialmente il ruolo di notaio della Cancelleria. Fu poeta della Scuola Siciliana e ebbe cariche di gran rilievo: giudice della curia regia, protonotaro, logoteta del regno, diplomatico presso la corte papale e i comuni del nord Italia. Fece inoltre parte della commissione che presiedette alla realizzazione delle Costituzioni di Melfi del 1231.
Nel 1249, però, egli fu accusato di tradimento per via dei suoi contatti con Papa Innocenzo IV. Su quanto ci sia di fondato dietro questa accusa, diverse sono le ipotesi, le più accreditate delle quali parlano di una congiura da parte degli invidiosi cortigiani. Ciò che sappiamo per certo è che Pier della Vigna venne incarcerato a Pisa e fatto accecare a Pontremoli, nella Piazzetta di San Gimignano. Poco dopo sarebbe morto, probabilmente suicida.
In quanto vittima dell’invidia altrui – qui, nello specifico, degli uomini di corte – e perciò ingiustamente condannato, Pier della Vigna assume, all’interno del XIII Canto dell’Inferno, un ruolo quasi di alter ego di Dante, exul immeritus.
Proprio per questa identificazione personale con l’anima dannata, l’autore della Commedia è portato – pur condannando apertamente e perentoriamente il suicidio, come vedremo nel paragrafo 4.1 – a giustificarne quasi il gesto estremo, che diviene in quest’ottica una sorta di protesta nei confronti della malvagità dei potenti.
3Canto XIII Inferno: sintesi narrativa
Versi 1-45. Il centauro Nesso ha traghettato Dante e Virgilio al di là del fiume Flegetonte; i due si incamminano per una folta selva, sui cui alberi nidificano le Arpie. Dante ode dei lamenti, ma non riesce a scorgere chi li emette; Virgilio lo invita allora a spezzare un ramoscello da uno degli alberi: dalla ferita escono sangue e parole, sono gli alberi stessi le anime.
Versi 45-78. Virgilio invita il cespuglio a rivelare la propria identità in modo tale che Dante, una volta tornato sulla Terra, possa ricordarne il nome ai vivi. L’anima si presenta come Pier della Vigna, uno dei più fedeli segretari dell’imperatore Federico II di Svevia, caduto in disgrazia per l’invidia dei cortigiani e suicidatosi per non aver saputo sopportare la vergogna dell’accusa.
Versi 79-108. Virgilio chiede allora a Pier della Vigna com’è possibile che le anime si tramutino in piante e se c’è la possibilità che ne fuoriescano. Il dannato risponde che le anime dei suicidi germogliano in piante selvatiche non appena giungono al VII Cerchio e che, nel giorno del Giudizio Universale, esse riprenderanno i propri corpi ma non potranno rivestirli: le appenderanno ognuna all’albero dove è imprigionata.
Versi 109-151. Dante e Virgilio sentono dei rumori provenire dalla selva e, improvvisamente, scorgono le anime di due scialacquatori che fuggono inseguite da delle cagne nere ed affamate. Si tratta di Lano da Siena e di Iacopo da Sant’Andrea; il primo cerca di sfuggire alle belve nascondendosi dietro un cespuglio, ma viene raggiunto e dilaniato. Il cespuglio dietro cui si era nascosto Lano appartiene a un’anima suicida di Firenze, che si impiccò nel segreto della propria casa.
4Analisi del Canto XIII dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
4.1La colpa: la violenza contro sé stessi
La colpa condannata all’interno del XIII Canto dell’Inferno è quella della violenza contro sé stessi. Due sono le tipologie in cui si dirama:
- La violenza contro se stessi nella persona: quella dei suicidi;
- La violenza contro se stessi nelle cose: quella degli scialacquatori.
Il tredicesimo Canto si concentra, in gran parte, sul primo dei peccati, quello relativo al suicidio: in questo modo Dante, distaccandosi decisamente dalla filosofia stoica che celebrava il suicidio come nobile gesto di libertà e di ribellione (vedi, ad esempio, la figura di Catone Uticense, presente anche nel Canto I del Purgatorio), può apertamente condannare coloro che si danno la morte. Secondo la morale cristiana, infatti, la vita è dono più prezioso offerto da Dio all’uomo e rifiutarla significa commettere la massima ingiuria verso di Lui.
Qual è, nello specifico, la condanna prevista per i suicidi all’interno della Commedia? Dal momento che hanno rinunciato al prezioso dono della vita umana, essi sono trasformati in piante, le cui frasche sono tormentate e dalle Arpie; nel giorno del Giudizio Universale, non potranno rivestire i loro corpi (contrappasso per antitesi).
Nell’ultima parte del XIII Canto dell’Inferno c’è però spazio per la seconda categoria di dannati puniti all’interno del secondo Girone del settimo Cerchio. Stiamo parlando degli scialacquatori, coloro cioè che attraverso, lo sperpero delle proprie ricchezze, si sono resi artefici della propria rovina compiendo – al pari dei suicidi – una violenza contro se stessi.
Per queste anime, Dante prevede una pena non troppo distante da quella immaginata per la prima categoria di dannati: gli scialacquatori, così come in vita hanno dilapidato i propri beni, sono inseguiti e smembrati da cagne fameliche (contrappasso per analogia).
5Canto XIII dell’Inferno: testo e parafrasi
Testo
Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco:
non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
E ’l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se’ nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre
che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».
Io sentia d’ogne parte trarre guai,
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.
Cred’io ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi
da gente che per noi si nascondesse.
Però disse’l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’hai si faran tutti monchi».
Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».
Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.
«S’elli avesse potuto creder prima»,
rispuose ’l savio mio, «anima lesa,
ciò c’ha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».
E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’io un poco a ragionar m’inveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi:
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.
La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede».
Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».
Ond’io a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».
Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega».
Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.
Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.
Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogni rosta.
Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.
In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea,
per le rotture sanguinenti in vano.
«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».
Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo,
disse «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».
Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,
raccoglietele al piè del tristo cesto.
I’ fui de la città che nel Batista
mutò il primo padrone; ond’ei per questo
sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ’l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
Io fei gibetto a me de le mie case».
Parafrasi
6Figure retoriche nel Canto XIII dell’Inferno
vv. 4-6, «Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco»: anafora
v. 4, «fronda»: sineddoche (singolare per il plurale)
v. 25, «Cred’io ch’ei credette ch’io credesse»: poliptoto
v. 37, «Uomini fummo, e or siam fatti sterpi»: chiasmo
v. 48, «rima»: sineddoche per indicare l’Eneide
v. 63, «sonni»: metonimia per indicare la tranquillità
v. 63, «polsi»: metonimia per indicare la vita
v. 64, «meretrice»: metafora per indicare l’invidia
vv. 67-68, «infiammò contra me li animi tutti; / e li ’nfiammati infiammar sì Augusto»: poliptoto
v. 72, «ingiusto fece»: anastrofe
v. 113, «caccia»: metonimia per indicare i cani da caccia
v. 136, «fu sovr’esso fermo»: iperbato
7Guarda il video sul Canto XIII dell'Inferno
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Domande & Risposte
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Quando si svolge il Canto XIII dell’Inferno Dante?
E’ l’alba del 9 aprile o, secondo altri, del 26 marzo del 1300.
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Dove si svolge Il Canto XIII dell’Inferno Dante?
Nel secondo girone del settimo cerchio. Dante e Virgilio si trovano nella selva dei suicidi.
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Chi sono i protagonisti del Canto XIII dell’Inferno di Dante?
Le Arpie e Pier della Vigna.