Bucolica I di Virgilio: traduzione e analisi
Traduzione e analisi della Bucolica I di Virgilio, componimento poetico in cui avviene l'incontro dei due pastori Titiro e Melibeo
Indice
Bucolica I di Virgilio
Virgilio ha composto le Bucoliche, raccolta di 10 egloghe, tra il 42 e il 39 a.C. Il tema principale di questi componimenti è quello pastorale e, in particolare, la Prima Bucolica, insieme alla Nona, è di natura autobiografica e tratta il tema dell'espropriazione delle terre.
Prima Bucolica: analisi
La Bucolica I è caratterizzata da un dialogo tra due pastori: Melibeo e Titiro. Il primo, colpito dall’esproprio delle terre, è costretto a lasciare la sua patria, che contempla per l’ultima volta prima di avviarsi all’esilio; il secondo ha potuto conservare le proprie terre grazie all’intervento di un deus, di cui non si specifica l'identità, incontrato durante un viaggio a Roma. Il contrasto tra i due personaggi emerge fin dai primi versi.
La prima bucolica è stata interpretata in chiave autobiografica e intesa come un ringraziamento rivolto dall'auotre latino, personificato in Titiro, ad Ottaviano. Le opposte sorti di Titiro e Melibeo rispecchiano i due diversi modi di rapportarsi al potere: la rovina di Melibeo ribadisce la fragilità del microcosmo bucolico, minacciato dalla storia; mentre Titiro, risparmiato grazie all’alleanza con il potere, si fa portavoce del motivo encomiastico, sottolineando che l’alleanza con il potere è l’unica possibilità di sopravvivenza.
I personaggi
Non è semplice delineare il carattere dei personaggi, poiché presentano molte contraddizioni. Titiro è un senex (vecchio), ma parla dell’amore come uno iuvenes (giovane). Di Melibeo non si conoscono età e posizione sociale, ma sappiamo che in passato fu un piccolo proprietario terriero. Sono appena delineate le figure di Galatea, una donna avida, e Amarillide, una donna amorosa, entrambe amanti di Titiro.
Il paesaggio ha le caratteristiche di quello laziale e lombardo, soprattutto mantovano nel momento in cui vengono menzionati il fiume Mincio, il Po la terra povera e non lussureggiante. Attraverso alcuni elementi, tra cui clima, ombra, piante, animali, castagne, si intuisce che ci troviamo in autunno o comunque vicino a settembre. In particolare in questa egloga, Virgilio menziona le castagne e le api iblee, che prendono il nome dai monti iblei, in Sicilia.
Prima Bucolica: traduzione
Possiamo suddividere la prima egloga in tre sezioni:
Versi 1-18
Nella prima sezione (vv. 1-18) si delinea l’opposizione tra i destini dei due pastori: lo spazio idillico di Titiro si contrappone a quello devastato dell’esule Melibeo:
M: Titiro, tu che riposi sotto l’ombra di un alto faggio, intoni sull'esile flauto una melodia silvestre: noi lasciamo i territori della patria e i dolci campi, noi abbandoniamo la patria; tu o Titiro, rilassato all’ombra insegni alle selve a risuonare il nome della bella Amarillide.
T: O Melibeo, un dio ci ha permesso questi momenti di pace. E infatti quello sarà sempre per me un dio; e spesso un tenero agnello dei nostri ovili bagnerà il suo altare. Egli ha permesso ai miei buoi ,come vedi, di camminare liberi e a me ha permesso di suonare per diletto con la zampogna agreste.
M: Certamente non ti invidio; piuttosto mi meraviglio, fino a tal punto ovunque in tutti i campi c’è turbamento.
Ecco, io stesso a fatica conduco le caprette; anche questa, o Titiro, trascino a stento: qui tra i folti noccioli ha lasciato sulla terra nuda due gemelli, speranza del gregge, dopo averli partoriti a fatica. Spesso questo male per noi, se la mia mente non fosse stata stolta, ricordo che le querce, colpite dal fulmine, l'avevano predetto. Ma tuttavia dì a noi chi sia questo dio, o Titiro.
Versi 19-45
La seconda sequenza (vv. 19-45) è caratterizzata da un grande flashback in cui Titiro rievoca il proprio viaggio a Roma e in questa parte emerge il punto di vista di Titiro, portatore del motivo encomiastico:
T: Io da stolto, o Melibeo, ho creduto che una città, che chiamano Roma, fosse simile a questa nostra, dove spesso noi pastori siamo soliti condurre i piccoli nati del gregge. Così conoscevo i cuccioli simili ai cani, i capretti alle madri; così solevo paragonare le grandi cose alle piccole. Ma questa città sollevò tanto il capo tra le altre, quanto i cipressi tra i flessuosi viburni.
M: E quale fu il motivo così grande di dover vedere Roma?
T: La libertà che tarda, tuttavia guardò me che indugiavo, dopo che la barba a me, che mi radevo, cadeva più bianca; tuttavia mi guardò e giunse dopo molto tempo, dopo che mi ha preso Amarillide, e Galatea mi ha lasciato. Infatti ,lo confesserò, finché mi possedeva Galatea non c’era speranza di libertà né cura del denaro. Benché dai miei recinti uscissero molte vittime, e (benché) grasso formaggio fosse fabbricato per la città ingrata, giammai la mano destra per me tornava a casa ricolma di denaro.
M: Mi meravigliavo, perché o Amarillide, tu mesta invocassi gli dei e per chi lasciavi pendere i propri frutti sull’albero: Titiro era lontano da qui. O Titiro, gli stessi pini, le stesse fonti, questi stessi arbusti ti invocavano.
T: Che potevo fare? Non mi era permesso allontanarmi dalla schiavitù né conoscere altri dei così solleciti. Lì vidi quel giovane , o Melibeo, per il quale ogni anno dodici volte fumano i nostri altari; qui quello a me, che lo chiedevo, diede per primo questa risposta: "pascolate come prima i buoi, o pastori, aggiogate i tori".
Versi 46-83
L'ultima parte (vv. 46-83) si ricongiunge alla prima in una struttura circolare, riproponendo, ora proiettato nel futuro, il contrasto tra serenità ed esilio. Melibeo prima celebra la vita felice di Titiro, destinato a rimanere nello spazio bucolico, conosciuto e protetto; poi si concentra sul proprio destino da esule, prefigurando gli spazi minacciosi e lontani. Qui emerge il punto di vista di Melibeo:
M: O fortunato vecchio, dunque i campi rimarranno tuoi, e abbastanza grandi per te, sebbene la nuda pietra e la palude invadano tutti i campi con il giunco fangoso. Pascoli inconsueti non nuoceranno alle gravide pecore, né le colpiranno i contagi maligni del gregge di un vicino. O fortunato vecchio, qui tra fiumi conosciuti e fonti sacre godrai il ristoro dell'ombra; qui a te, come sempre, la siepe dal vicino confine, del cuoi fiore del salice si nutrono le api iblee, spesso con un lieve sussurrò concilierà il sonno; qui sotto un’alta rupe canterà verso il cielo il potatore; e tuttavia intanto le roche colombe, tuo amore, e la tortora non cesseranno di gemere dall’alto olmo.
T: Prima dunque pascoleranno in cielo i cervi leggeri e le acque lasceranno sulla riva i pesci privati dell’acqua, e prima, dopo aver percorso i territori di entrambi, l’esule Parto berrà nell’Arari, il Germano nel Tigri, prima che l’immagine di lui svanisca dal mio cuore.
M: Noi invece da qui alcuni ce ne andremo, chi tra gli Africani assetati, altri in Scizia, fino all’Oassi, che trascina l’argilla e fino ai remoti Britanni, divisi dal mondo. Giammai tra un lungo tempo rivendendo la terra dei padri e il tetto, ammassato di zolle, mio regno, potrò ammirare un po’ di spighe? Un empio soldato possiederà questi maggesi così coltivati? Un barbaro queste messi? Ecco, dove la discordia ha trascinato i miseri cittadini; per questi noi seminavamo i campi! Allora, o Melibeo, innesta i peri, disponi in filari le viti! Andate, o mie capre, gregge un tempo felice, andate. D’ora in poi non vi vedrò più sdraiato in una verde grotta pendere da una rupe spinosa; non canterò più canzoni; non con me che pascolo, o capre, brucherete il trifoglio bianco e gli amari salici.
T: Tuttavia questa notte potevi riposare qui con me sopra una fronda verde, abbiamo frutti maturi, tenere castagne e latte rappreso in abbondanza, e già lontano fumano i comignoli dei casolari e più lunghe discendono dagli alti monti le ombre.
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