L'angoscia esistenziale in arte, letteratura e filosofia
Approfondimento sul tema dell'angoscia esistenziale in arte, letteratura e filosofia: Munch, Kierkegaard, Kafka, Berg, Montale, Ungaretti, Quasimodo
Indice
Angoscia esistenziale
L'angoscia esistenziale è uno dei temi principali che ha coinvolto e animato artisti, filosofi e letterati di tutti i tempi.
Qui vedremo il modo in cui alcuni di loro hanno parlato di questo fenomeno, nel Novecento in particolare.
Angoscia esistenziale nell'arte
Nel mondo dell'arte molti hanno analizzato il concetto di angoscia esistenziale, ma in particolare un artista più di altri ha avuto modo di esplorare questo sentimento meglio di altri. Lo ha fatto in particolare in un'opera - la più famosa della sua produzione - ma anche in altre.
Edvard Munch
Camminavo lungo la strada con due amici, quando il sole tramontò. Il cielo si tinse all’improvviso di un rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura. Sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.
Con queste parole Edvard Munch descrive la sua opera più famosa, Il grido, del 1895. Quest'opera ci appare caratterizzata dall’utilizzo di una linea morbida, fluida, simile a quella dell’ Art Nouveau, ma che non ha più niente a che fare con il piacere o la decorazione.
Anche se Munch viene considerato un individualista, viene collocato comunque alle radici dell’espressionismo; questo movimento riflette la situazione sociale nel periodo della prima Guerra Mondiale e gli artisti usano colori e forme per esprimere paure, angoscia, sensazioni dolorose che l’uomo prova durante la sua vita.
Munch dipinge utilizzando il linguaggio espressionista. I colori hanno un significato simbolico: puri, contrapposti tra di loro, hanno tonalità accese anche quando la morte incombe. In termini stilistici, l’artista norvegese introduce molte novità: da una parte un colore acido e violento, dall’altra una sinuosità lineare che lascia un senso di allucinazione. L’artista dipinge non quello che vede, ma quello che sente dentro.
In primo piano troviamo una figura dal viso senza forma simile ad una larva, con gli occhi spalancati e gialli, che si porta le mani alle orecchie quasi come volesse non udire il grido disperato che sale dall’interno, ancora più disperato di un urlo che proviene dall’esterno: è il grido della nascita, dell’essere gettati nel mondo e pure già condannati. È, in sostanza, il grido della morte.
L’uomo sente l’angoscia, il disagio verso il mondo e urla non per risolvere il problema, ma per comunicare il suo stato d’animo: alle spalle della figura troviamo un ponte dall'andamento obliquo.
Munch ha trattato lo stesso tema anche in altre due opere: in Angoscia e Disperazione la situazione è identica, ma l’uomo pur rimanendo isolato, chiuso in se stesso, è circondato da altre persone con cui non comunica. L'impatto duro della linea retta, insieme al timbro allucinato, raccontano in modo efficace l’urto improvviso dell’angoscia che può trasformare un bel tramonto in un incubo insostenibile.
È la stessa angoscia: i due compagni, che in Disperazione si allontanavano con indifferenza verso il fondo, sono qui trasformati in due figure persecutorie che pedinano la creatura terrorizzata.
L'angoscia in filosofia
Soren Kierkegaard, autore de Il concetto dell'angoscia del 1844, esamina l’uomo non solo perché dotato di ragione, ma anche nella totalità della sua esistenza di essere finito e irripetibile. Secondo il filosofo, esistere vuol dire emergere dal nulla, ma non si può esistere se non come peccatori: esistere è peccato, è la perdita dell’originaria innocenza.
Il peccato si presenta come scelta e a volte come assurdo: Abramo, spinto da Dio a sacrificare Isacco, peccherebbe sia se lo uccidesse (contro le leggi morali del suo popolo) sia se non lo facesse (contro un ordine di Dio): questa situazione genera angoscia. Il peccato è una rottura da una situazione di innocenza, mentre l’innocenza è ignoranza, perché nell’innocenza l’uomo non è consapevole né del bene né del male.
Kierkegaard non sa come si passi dall’innocenza al peccato, ma sa che il suo presupposto è l’angoscia, il sentimento che prova l’uomo quando ha la libertà di potere, quando è al vertice della libertà.
La risposta degli uomini di cultura alla profonda crisi esistenziale, morale e culturale che investe la coscienza dell’uomo nei primi del Novecento e alla crisi che travolge l’intellettuale tradizionale, mostra soluzioni diverse e spesso contraddittorie.
Angoscia esistenziale in letteratura
Alcuni scrittori analizzano nel dettaglio l'inquieta e tormentosa “malattia” dell’uomo moderno nella civiltà industriale e borghese che loro stessi peraltro condannano.
Dalle loro opere escono personaggi incapaci di agire, di darsi una consistenza, e la loro protesta tende a risolversi in se stessa, in una triste e dolorosa impotenza.
Franz Kafka
Il mondo letterario di Franz Kafka è un palcoscenico di vittime la cui esistenza è dominata da forze banali e familiari, ma, nonostante ciò, ignote. Kafka si avvicina al pensiero di Kierkegaard con temi quali la solitudine, il senso di colpa dell’individuo minacciato da forze anonime e inafferrabili al di fuori del suo controllo, la condanna.
Ne La metamorfosi l'autore racconta l'impossibilità di ottenere amore e accettazione. Gregor, il protagonista, si sveglia una mattina trasformato in uno scarafaggio: è la concretizzazione fisica del rifiuto affettivo, della vergogna di sé, della radicalità della differenza con gli altri, fino alla condanna finale.
K. è il protagonista de Il processo, che al mondo avverso reagisce in modo duplice: da un lato lo sforzo instancabile di difendersi da solo rifiutando ogni aiuto esterno, dall’altro la coscienza che anche questi sforzi risulteranno vani.
K. lotta, ma la resa è nota fin dall'inizio, in quel suo difendersi senza passioni e senza speranza, senza momenti di autentica fiducia in sé stessi e nella giustizia umana. La sua è una lotta rassegnata che anticipa la conclusione, ovvero la pena capitale.
Alban Berg
Wozzeck, protagonista dell'omonima opera di Alban Berg, somiglia molto ai personaggi kafkiani.
Il suo stato di salute mentale e le condizioni di vita sono intrecciate in un unico problema: la sola conseguenza possibile sarà ancora una volta la tragedia.
Wozzeck è vittima di un sistema sociale perverso, rappresentato dalla costellazione degli altri personaggi principali: commiserato e considerato come un pazzo, sfruttato, ingannato, si vede negare ogni cosa.
Il suo piccolo mondo è svuotato di ogni valore affettivo: fa letteralmente da cavia per i deliranti esperimenti del dottore, e quando scoprirà il tradimento di Maria, si compirà l'effettiva tragedia.
La caratteristica dell’intero progetto resta chiaramente di natura espressionista: offre una fedele e trasfigurata riproduzione della vita della psiche, dell’angoscia e dell’inconscio.
Eugenio Montale
Eugenio Montale con la sua raccolta Ossi di seppia del 1925 sconvolge il panorama letterario italiano: Spesso il male di vivere ho incontrato è la più drammatica testimonianza della crisi spirituale dell’uomo moderno, in un mondo che pare sul punto di sgretolarsi e dissolversi.
Montale si sintonizza qui con Pirandello, Kafka, Joyce e tutti gli altri intellettuali italiani ed europei che esprimevano nelle loro opere lo stesso disorientamento e disagio.
Il titolo stesso della prima raccolta poetica montaliana richiama un relitto del mare e delle spiagge, l’osso di seppia, che simboleggia cose inaridite, prosciugate, senza vita.
Il “male di vivere” montaliano è però anche la voce del primo Novecento e perciò riempie le pagine di altri scrittori. Ciò che tortura Montale, infatti, è condiviso, ad esempio, anche da Ungaretti e da Quasimodo.
Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo
La poesia di Giuseppe Ungaretti nasce in mezzo al dolore e alla guerra; in essa l’uomo è posto di fronte a situazioni, esigenze e sentimenti elementari, e sente la presenza costante della morte.
Nonostante questo, o forse proprio per questo, riesce ad attaccarsi ad un disperato vitalismo, riscoprendo quasi in modo primordiale l’innocenza e la natura, per la quale l’individuo si sente “docile fibra dell’universo”.
Salvatore Quasimodo rimprovera all’uomo del suo tempo non solo di essere ancorato ancora alla dimensione morale della preistoria, ma anche di aver costretto la sua scienza a divenire strumento di sterminio invece che di progresso. All'uomo manca un sia pur minimo sentimento di solidarietà e d’amore per i suoi simili, oltre alla fede in Cristo, simbolo d’amore trasversale.