Ad Angelo Mai: analisi e commento della canzone di Leopardi

Di cosa parla la canzone di Giacomo Leopardi Ad Angelo Mai: analisi e commento della poesia di alto impegno civile

Ad Angelo Mai: analisi e commento della canzone di Leopardi
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Ad Angelo Mai

Ad Angelo Mai è una canzone di Giacomo Leopardi
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La canzone Ad Angelo Mai è sicuramente poesia d’alto impegno civile. In essa il giovane Leopardi, avvezzo alla trattazione di temi filosofici, ritorna su problematiche già affrontate, in funzione di una parenesi rivolta ai suoi contemporanei.

Attraversa tutta la lunghezza della canzone il sentito confronto tra passato e presente, e più esattamente tra un passato fiorente e splendido per lo spazio lasciato all’immaginazione e un presente che per contrasto appare svuotato, dormiente, mediocre, vile. Il confronto è portato avanti con il continuo accostamento di immagini relative al passato ed altre relative al presente: alle prime corrispondono termini vaghi, indefiniti, estremamente “poetici”, secondo la definizione che ne dà lo stesso Leopardi, capaci di suscitare una certa idea di indeterminatezza; alle ultime, al contrario, corrisponde un campo semantico decisamente volto al pessimismo, che comprende termini come “tedio”, “disperato obblio”, “codarda”, “vile”, “distrutto”, “duolo”, “affanni”.

La canzone si articola in diverse sezioni. In apertura e in chiusura è posta in rilievo la figura di Angelo Mai, che con la sua perseveranza riporta alla luce gli scritti degli antichi, rendendo inevitabile il confronto con i moderni e stimolando gli italiani a far rivivere lo splendore ed i valori delle epoche passate.

Nelle strofe centrali, invece, Leopardi passa in rassegna alcuni grandi del passato, ognuno dei quali è ricordato come simbolo di un’epoca. Primo personaggio citato è Dante, di cui è ricordata la resistenza alla fortuna avversa; segue Petrarca, al quale Leopardi guarda quasi con invidia, poiché riuscì a vincere, col dolore, la noia. Nel presente, afferma il poeta, il “fastidio”, la noia, contraddistinguono l’uomo in tutte le fasi della sua vita.

La strofa successiva è dedicata a Cristoforo Colombo, apostrofato come “ardita prole” che riuscì a rompere ogni ostacolo della natura, scoprendo qualcosa d’ignoto che costituì la giusta ricompensa ai rischi affrontati. Tuttavia la lode a Colombo è seguita da un’amara considerazione: le nuove scoperte hanno privato gli uomini della possibilità di immaginare l’ignoto, e le esplorazioni, anziché rendere la Terra più grande, l’hanno limitata, con grave danno per l’uomo.

Giacomo Leopardi, Ad Angelo Mai

Solo il Rinascimento ha saputo restituire il giusto peso all’immaginazione: Ariosto, “cantor vago”, ne è l’esemplificazione, essendo egli riuscito a narrare dei “felici errori” che rendevano meno “trista” l’epoca passata. Nel presente, spogliata ogni cosa del velo di speranza che prima ricopriva tutto, resta la consapevolezza che solo il dolore è cosa certa, e non vana come tutto il resto.

Dalla considerazione di carattere universale Leopardi passa ad un altro personaggio, Torquato Tasso, che è eretto a simbolo dell’uomo “sensibile e immaginoso”, incompreso da uomini che, pensando solo al “computar” lo ritengono pazzo. Ultima figura, a cui Leopardi dà un ruolo preminente e assegna un alto valore civile, è Alfieri, presentato come quel “privato” che “mosse guerra a’ tiranni”, solo, poiché l’ozio vince, nei moderni, qualunque impulso di “maschia virtù”.

Caratteristica comune ai personaggi passati in rassegna da Leopardi è il fatto che la morte abbia evitato loro la vista di ciò che avrebbe riservato il futuro, ossia il presente che Leopardi, suo malgrado, si trova a vivere, un presente che “non conviene agli alti ingegni”. Attraverso i ritratti dei grandi del passato Leopardi ripercorre le tappe fondamentali del suo pensiero: la superiorità degli antichi sui moderni, la scomparsa dell’immaginazione col progressivo sviluppo scientifico, la poetica del vago e dell’indefinito, l’idea del dolore come unica certezza della vita, la superiorità dell’immaginario sul vero.

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Soprattutto, emerge una visione particolarmente pessimistica della vita, suffragata dall’immagine della morte come via di scampo dai dolori e dagli affanni. Molto diverso è il messaggio che emerge dal carme sepolcrale di Ugo Foscolo, al quale la canzone leopardiana si può per certi aspetti equiparare. Se entrambi i poeti elevano gli antichi a modelli per i moderni, poiché possono con i loro valori ispirare una civiltà ormai indolenzita, diverse sono le modalità con cui le tombe dei grandi influiscono sui vivi.

Dai Sepolcri emerge come le tombe siano motivo di ispirazione per i vivi, che con i defunti possono istaurare una “corrispondenza”, fino a percepire dalle tombe la voce di coloro che in passato propugnarono quei valori persi nel presente.

Leopardi intravede nelle tombe dei grandi quasi una speranza, un rifugio. La sua è un’illusione, un rivolgersi nostalgicamente al passato, di cui non resta altra traccia se non nelle tombe di coloro che quel passato resero grande. I grandi uomini antichi rimpianti da Leopardi vanno riscoperti con lo studio, e in quest’ottica assume importanza l’opera di un uomo come il cardinale Mai, che dei valori del passato si fa portavoce.

Foscolo, invece, resta ancorato all’idea che le tombe “parlino” da sé, e ne rivendica l’importanza a fronte della “sepoltura illacrimata”. In ogni caso, per entrambi i poeti, la tomba costituisce, seppure in modi diversi, un legame forte con il passato; se al passato deve rifarsi il presente per raggiungere un maggiore livello di civiltà e cultura, ecco che la tomba e la sepoltura assumono un alto valore civile, paideutico, di recupero dei valori e della memoria, che possono salvare l’uomo dall’imbarbarimento progressivo a cui è soggetto.

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