A Leone Traverso: testo e commento alla poesia di Eugenio Montale
Testo e commento A Leone Traverso, componimento di Eugenio Montale inserito all'interno della raccolta Diario del '71 e del '72. A cura di Marco Nicastro
A LEONE TRAVERSO: TESTO
Eugenio Montale dedica questa poesia in due parti a Leone Traverso, filologo e traduttore italiano.
A LEONE TRAVERSO
I
Quando l'indiavolata gioca a nascondino
difficile acciuffarla per il toupet.
E non vale lasciarsi andare sulla corrente
come il neoterista Goethe sperimentò.
Muffiti in-folio con legacci e borchie
non si confanno, o raro, alle sue voglie.
Pure tu l'incontrasti, Leone, la poesia,
in tutte le sue vie, tu intarmolito
sì, ma rapito sempre e poi bruciato
dalla vita.
II
Sognai anch'io di essere un giorno mestre
de gay saber; e fu speranza vana.
Un lauro rinsecchito non dà foglie
neppure per l'arrosto. Con maldestre
dita sulla celesta, sui pestelli
del vibrafono tento, ma la musica
sempre più s'allontana. E poi non era
musica delle Sfere... Mai fu gaio
né savio né celeste il mio sapere.
A LEONE TRAVERSO: COMMENTO
Il componimento qui proposto fa parte della raccolta successiva a Satura, intitolata Diario del '71 e del '72. Si tratta di una raccolta in perfetta continuità con quella precedente, sia da un punto di vista tematico che stilistico: episodi tratti dalla comune quotidianità, il ricordo di ciò che è perduto visto attraverso il filtro di un'ironia amara, la tendenza alla brevità epigrammatica.
Ho voluto soffermarmi innanzitutto su questa poesia perché ci offre uno spaccato della concezione dell'arte poetica che aveva Montale, coerentemente con qualche altro testo già apparso nella raccolta precedente e che citerò di seguito. È una concezione preziosa soprattutto per chi vuole sbirciare nel laboratorio di un poeta e si cimenta non solo nella lettura ma anche nella scrittura di versi. Quello della riflessione sulla poesia è inoltre uno dei nuclei tematici ricorrenti del Diario.
LA POESIA SECONDO MONTALE
Montale ci dice qui che la poesia «gioca a nascondino», cioè sorge in modo imprevedibile ed è facile lasciarsela scappare (ciò presuppone una grande presenza mentale da parte di chi la scrive); che non ci si avvicina ad essa assumendo delle pose programmatiche, ad esempio lasciandosi «andare sulla corrente» come Goethe (o anche seguendo il libero flusso della coscienza), né attraverso uno studio maniacale («muffiti in-folio con legacci...»). Come Montale dice in un altro componimento di Satura (La poesia), quest'arte è invece fatta di parole che nascono spontaneamente senza poter dire con precisione se siano frutto di un raptus creativo o di studio meditato («Il raptus non produce, il vuoto non conduce / non c'è poesia al sorbetto o al girarrosto»), in un processo dunque difficile da spiegare; parole che, quando per ispirazione appaiono, richiedono urgentemente un luogo per manifestarsi, più che eleganza, rispettabilità, adeguatezza formale («le parole / quando si svegliano / si adagiano sul retro delle fatture, sui margini / dei bollettini del lotto, / sulle partecipazioni / matrimoniali o di lutto»). Le parole della poesia sono inoltre pudiche, fatte per «il buio dei taschini» o «il sonno di una bottiglia», piuttosto che per essere lette pubblicamente, commercializzate e fissate religiosamente una volta per tutte, come Montale dirà in un altro componimento di Satura (Le parole).
SULLA POESIA NON SI HA CONTROLLO
La poesia non è un'arte che va spiegata («rifiuta / le glosse degli scoliasti»), ma nemmeno si può pensare che debba essere per forza oscura, che per il semplice fatto di essere una poesia «basti a se stessa», come ci dice molto acutamente Montale ancora in La poesia. Quando la si scrive non di rado alcune regole formali chiedono rispetto, per quanto desuete possano sembrare; perché in fondo le sono connaturate, come Montale scrive in Le rime, altro celebre testo incluso in Satura: «Le pinzochere ardono / di zelo e prima o poi (rime e vecchiarde) / bussano ancora e sono sempre quelle».
In sostanza, per Montale, la poesia è qualcosa di cui non si ha controllo, chiede udienza quando vuole, deve essere spontanea e non frutto di una posa intellettuale, ma al contempo l'occhio di chi la scrive deve essere rivolto alle regole formali che la caratterizzano. E soprattutto la poesia non deve essere superba, non deve credere troppo in se stessa. Il poeta esperto infatti è colui che ha abbandonato i suoi sogni di gloria (tornando a questa poesia, Montale infatti dice: «Sognai anch'io di essere un giorno mestre / de gay saber»37), che è consapevole dei propri limiti e dello sforzo espressivo tutto terreno e imperfetto («non era / musica delle Sfere...»).
FORMA E STILE
Da un punto di vista prettamente formale e stilistico si può notare la cura dei versi, molti dei quali endecasillabi canonici o quasi. Si notano delle rime molto belle, interne ed esterne: intarmolitorapito, vana-s'allontana, mestre-maldestre, Sfere-sapere e infine voglie-foglie (quest'ultima tra le due strofe). Si tratta di elementi fonici che come spesso accade trapuntano i componimenti di Montale conferendo loro, in un modo assolutamente sobrio, delle belle variazioni di ritmo, ricordandoci così che ci troviamo pur sempre di fronte ad un componimento poetico, nonostante il suo carattere colloquiale, e mai ad una prosa. Si tratta di rime che, come diceva Montale nella poesia omonima, insistono e bussano continuamente alla porta del poeta, tanto che a mala pena si riesce a lasciarle fuori, così forte e insita è la musicalità richiesta dal testo poetico (aspetto oggi sempre più raro, dato il viraggio della poesia contemporanea verso uno stile molto prosastico).
E a proposito di prosa: nonostante il tono colloquiale e decisamente più “basso” che molte poesie della seconda parte della produzione di Montale avranno a partire da Satura, esso è rotto nella sua uniformità da saltuari elementi dotti o aulici: riferimenti a scrittori o artisti, libri, località o avvenimenti storicamente importanti ecc. Per cui l'abbassamento linguistico nella poesia montaliana non è mai totale, né pienamente convinto. La poesia di Montale, anche se meno che nelle prime raccolte, nonostante le apparenze continua dunque a servirsi di una lingua che mantiene uno scarto consistente rispetto alle modalità espressive più comuni e più tipiche della prosa.
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