De rerum natura di Lucrezio: proemi e finali

Descrizione dettagliata dell'opera De rerum natura, dell'autore latino Tito Lucrezio Caro. Analisi dei proemi e dei finali

De rerum natura di Lucrezio: proemi e finali
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De rerum natura di Lucrezio: i proemi e i finali

De rerum natura: descrizione dei proemi e dei finali
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Il De rerum natura è l'opera principale dell'autore latino Tito Lucrezio Caro. L'opera, un poema didascalico composto in esametri, si caratterizza per una forte simmetria: è suddivisa in 6 libri, dove possiamo distinguere proemi e conclusioni.

Analizziamo i proemi e i finali dell'opera.

De rerum natura: i proemi

Il poema si apre con un inno a Venere, invocata come genitrice dei Romani e come forza generatrice della vita nel mondo.
Questo esordio ha fatto molto discutere gli studiosi, perché sembrerebbe in contrasto con i dettami della dottrina epicurea, secondo la quale gli dei sono indifferenti alle faccende degli uomini.
Sono state date diverse spiegazioni: alcuni studiosi hanno pensato che la Venus invocata sia la divinità protettrice della famiglia del dedicatario del poema, Gaio Memmio, come testimoniano le fonti numismatiche; ma in tal caso si tratterebbe di una divinità guerriera, che ben difficilmente Lucrezio avrebbe scelto nel suo poema. Secondo altri la dea potrebbe incarnare il principio dell’edonè o voluptas (il piacere epicureo), rappresentato come principio dinamico e non statico. Più semplicemente, c’è chi ha pensato che il poeta stia riproducendo un modello letterario: l’invocazione ad una divinità era un luogo comune nel poema didascalico; anche nei Fenomeni di Arato, Zeus era la forza che muoveva l’universo.

Subito dopo, segue l’elogio di Epicuro, di cui ci sono altri encomi posti nei proemi del III, V e VI libro. In questo elogio, il filosofo viene presentato come l’eroe, che solo fra gli uomini osa sfidare il potere della religio. Nella seconda parte dell’encomio prevale il tono mistico: Epicuro è riuscito a penetrare i segreti della natura e grazie alla sua impresa l’umanità può risollevarsi.

Nel proemio del III libro Epicuro è rappresentato in modo ancor più solenne: egli è il lumen che rischiara le tenebre e supera di tanto i suoi discepoli quanto il cigno la rondine o un forte cavallo i deboli capretti. Gli insegnamenti del filosofo producono visioni della realtà che appaiono ai discepoli con il crollo dei moenia mundi ( le mura del mondo): la prima di tali visioni riguarda gli dei che vivono felici negli intermundia, la seconda l’inesistenza dell’Ade. Nel descrivere le dimore degli dei Lucrezio traduce un brano dell’Odissea.

Nel proemio del V libro il poeta istituisce un paragone fra Epicuro ed alcune divinità, quali Libero e Cerere, gli dei inventori, nella tradizione greca, della vite e del grano: persino di questi beni l’umanità potrebbe fare a meno, ma non potrebbe vivere senza gli insegnamenti del maestro che portano alla liberazione dagli affanni e dalle paure. Nella seconda parte Lucrezio istituisce un paragone fra Epicuro e Ercole, l’eroe benefattore per eccellenza, capace di intraprendere le 12 fatiche nelle regione più lontane per il bene degli uomini, eliminando mostri mitici come il leone Nemeo o l’Idra.
Epicuro, al contrario, ha sconfitto “nemici” ben più temibili, cioè quelle paure e preoccupazioni con cui l’uomo ha a che fare ogni giorno.

Il brano su Ercole è molto importante anche perché è il primo elenco delle fatiche di Ercole nella letteratura latina.

L’ultimo elogio di Epicuro all’inizio del VI libro si apre con una lode della patria del maestro Atene, vista come un faro di civiltà per tutta l’umanità. Anche l’esaltazione della città natale negli elogi dei grandi personaggi è un topos letterario degli encomi.
Il proemio del secondo libro contiene l’elogio della filosofia: Lucrezio rappresenta gli uomini, ignari della filosofia epicurea, come naufraghi in balìa del mare in tempesta. Il filosofo invece vive tranquillo nella sua arx, forte delle sue convinzioni e delle sue conoscenze acquisite attraverso lo studio. Dopo Lucrezio descrive le attività degli uomini,che si affannano nella conquista di potere e ricchezza, beni che non servono a dare la pace dell’animo: l’unico bene di cui l’umanità ha bisogno è un cuore pure e libero dalla schiavitù e dalla paura.

Il proemio del IV libro contiene l’elogio della poesia: qui Lucrezio si mostra consapevole della grandezza della propria operazione culturale, che consiste nel dare una forma letterariamente degna alla vera ratio.
Egli si gloria di percorrere strade impervie e mai battute, di aver attinto ad una fonte pura e di aver colto novos flores con cui ha intrecciato una corona: essa è stata posta sul suo capo dalle Musa, che gli hanno concesso un onore mai elargito prima ad altro mortale. Tutti questi motivi (la via impervia, la fonte pura, novos flores e la corona) sono tratti dal prologo degli Aitia di Callimaco: esse erano divenuti in epoca romana i motivi tradizionali dell’investitura poetica.
Lucrezio è d’accordo con Epicuro nel considerare la poesia come creatrice di false immagini che possono create affanni: ma la sua opera non vuole creare somnia ma divulgare la verità in grado di rendere gli uomini liberi da ogni paura e dolore.

De rerum natura: i finali

Tutti i libri del De rerum natura possono contare su finali significativi, ma quelli degli ultimi quattro libri sono i più discussi e studiati per la loro complessità.
Il finale del III libro svolge l’argomento della vanità del timore della morte, che è un elemento centrale della dottrina epicurea e discendi direttamente dalla dimostrazione della teoria atomistica di ogni entità.
Ancora una volta Lucrezio, dimostrando la sua profonda conoscenza del mito e della tradizione, piega le immagini tradizionali per dimostrare la validità della dottrina epicurea. Egli infatti ricorda che personaggi come Tantalo, Sisifo, Cerbero e le Furie che secondo la tradizione popolerebbero l’Ade, sono privi di qualsiasi realtà, quindi non esiste un al di là che possa accoglierli. Nessuno può sottrarsi alla morte, né re né potenti: segue un altro motivo letterario quello del catalogo di uomini eminenti che ha il suo culmine con Epicuro, mortale anch’egli nonostante i suoi meriti verso l’umanità.

Il finale del IV libro presenta gli effetti deleteri della passione amorosa: il poeta accosta alle descrizioni della manifestazioni fisiche della passione i motivi tradizionali della poesia erotica. Ancora una volta Lucrezio utilizza elementi di una tradizione letteraria consolidata per la dimostrazione delle dottrina epicurea.

Il finale del V libro è dedicato alla storia della civiltà umana. Molti luoghi comuni della letteratura classica sono rovesciati: ad esempio la visione dell’età primitiva vista come una età dell’oro in cui gli uomini vivevano in pace viene invece considerata come una dura lotta per la sopravvivenza in un ambiente assolutamente ostile. Ha destato molte discussioni anche il giudizio pessimistico sul progresso, visto di per sé come un bene, ma secondo il poeta gli uomini ne fanno sistematicamente un cattivo uso.
Molto successo invece hanno avuto le teorie sull’origine contrattualistica della società o la polemica a proposito del linguaggio contro chi sosteneva che un solo eroe avesse dato un nome a tutte le cose.

Il Vi libro si conclude con la drammatica descrizione della peste in Atene, che ha il suo modello in Tucidide. A parte la questione sulla compiutezza o meno del poema, questo finale rientra nel programma “illuministico” dell’ultima sezione del poema, con la dimostrazione che anche le epidemie sono fenomeni fisici e non conseguenze della collera divina.

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